Nella Parigi di fine Quattrocento una zingara danza sul sagrato di Notre Dame accompagnata dal suono di un tamburello, mentre una folla di curiosi si affolla per contemplare il vivace spettacolo. Tra i presenti un uomo osserva silenziosamente. Sulle labbra un doloroso sorriso e nella mente oscuri pensieri… Quell’ uomo è Claude Frollo, austero arcidiacono di Notre Dame, e così prendono avvio le vicende di “Notre Dame de Paris”, celebre romanzo di Victor Hugo, pubblicato nel 1831.
Claude Frollo è certamente uno dei personaggi chiave e uno dei più complessi, scandagliato nei minimi dettagli da Hugo fino al profondo dell’anima con una maestria che non per nulla ha reso lo scrittore il padre del romanticismo francese. La storia dell’arcidiacono è colma di sofferenza e solitudine: destinato fin da piccolo alla carriera ecclesiastica, viene separato dai genitori molto presto per essere allevato in un monastero. Per colmare il vuoto affettivo si getta con ardore sui libri e sullo studio, eccellendo in ogni disciplina. Durante una pestilenza perde i genitori e decide di allevare il fratello minore, sopravvissuto, facendone lo scopo della sua vita. Allo stesso tempo, salva un piccolo neonato deforme da morte certa per abbandono: lo chiamerà Quasimodo. Frollo può così sperimentare un calore nuovo che tuttavia non riuscirà mai a colmarlo e appagarlo perché il fratello, crescendo, diventerà uno scapestrato e uno scialacquatore, deludendo le aspettative e i sacrifici in cui l’arcidiacono si era prodigato per dargli una buona educazione. Il prete cercherà nuovamente di ricorrere al conforto dello studio e della scienza: “e se, invecchiando, si erano scavati abissi nella sua scienza, altrettanti si erano scavati nel suo cuore”. Claude Frollo è un uomo senza affetti: con le donne mantiene una distanza quasi aggressiva, temendo di essere turbato dagli istinti carnali, rovinosi per la sua posizione di ecclesiastico.
Questo fino a che l’incontro con Esmeralda non abbatterà ogni sua resistenza e difesa, conducendo il prete alla follia e alla distruzione di entrambi. Precipitato nell’ossessione dell’attrazione fisica per la zingara, l’arcidiacono non è più in grado di dominare le proprie passioni e di reprimere il bisogno di amore che per una vita gli è stato negato o che è stato costretto a soffocare sempre in nome delle sue responsabilità, di religioso e di fratello. Consapevole dei divieti imposti dai suoi voti, spaventato che il soggetto della sua attrazione sia una zingara, e ritenendo che una simile attrazione non possa che essere opera di stregoneria, il suo amore si tramuta in conflitto interiore, pensiero fisso, ossessione. E l’ossessione diviene gelosia, volontà di controllo.
“…a partire da quel giorno, apparve in me un uomo che non conoscevo. Volli ricorrere ad ogni rimedio: il chiostro, l’altare, il lavoro, i libri. Follia! (…) Sai, ragazza, quello che vedevo ormai sempre, tra il libro e me? Te (…)”
“…vedendo sempre i tuoi piedi danzare sul mio breviario, sentendo sempre la notte in sogno il tuo corpo scivolare sulla mia carne, volli rivederti (…) Sventura! Quando ti ebbi visto due volte, volli rivederti altre mille, volli rivederti sempre. (…) Ti aspettavo sotto i portici, ti spiavo all’angolo delle vie, ti spiavo dall’angolo della mia torre”.
La mancanza di affetto nella sua vita, si tramuta in un inconscio desiderio di rivalsa, ed ecco che il suo sentimento diventa ai suoi occhi il più grande e il più alto di tutti, tanto forte che non può essere ignorato, ma anzi deve essere appagato. Frollo ritiene di avere il diritto di possedere la fanciulla, anche carnalmente, alla luce di un desiderio che non può che rappresentare per lui, uomo di chiesa e di razionalità scientifica, una caduta morale senza più salvezza.
“Di grazia, se vieni dall’Inferno, ci vengo con te! (..) L’Inferno dove sarai, è il mio Paradiso, la tua vista è più bella di quella di Dio! Oh! Parla! Non vuoi saperne di me? Il giorno in cui una donna rifiutasse un amore simile, crederei che le montagne si muovessero”.
“Pensavo anche confusamente che un processo ti avrebbe consegnata a me, che in una prigione io ti avrei tenuta, io ti avrei avuta, che lì non avresti potuto sfuggirmi, che tu mi possedevi da abbastanza tempo perché anch’io ti possedessi a mia volta”.
Ne segue una gelosia senza pari; il prete non può sopportare che la zingara sia invaghita dell’ufficiale Phoebus, e seguendo gli amanti ad un incontro amoroso, arriva a pugnalare il capitano delle guardie. E quando il tentativo di controllo è fallito e la zingara sfuggita, annullando la possibilità di averla, ecco che si compie il dramma che a ben pensare ricorda molto la situazione di molte donne al giorno d’oggi, vittime di chi sperimenta verso di loro un amore ossessivo, e quindi malato: “Ripetè con aria pensierosa la sua frase fatale: – Nessuno la avrà!”.
“Nessuno la avrà”. Significa vietare che l’altra persona viva e sia libera. Significa preferir darle la morte, piuttosto che correre il rischio di non averne il controllo (perché ciò che emerge è proprio questo bisogno). Claude Frollo, ancora nella falsa convinzione che il suo sia “amore troppo forte”, prova ormai rancore e odio nei confronti della zingara che lo respinge: ma non è amore quello che vuole il male di una persona. Così il folle arcidiacono pronuncia la sentenza: “o il mio letto, o la tomba!”.
Ed ecco che si consuma il dramma di Notre Dame de Paris; la tragedia di Esmeralda, la tragedia di Quasimodo che ne è innamorato, e quella di Frollo. E la caduta finale dell’arcidiacono dal tetto della cattedrale non è che lo sprofondare di un’anima negli abissi; inevitabile e rovinosa caduta, dopo aver toccato le guglie più alte della follia.