Il primo romanzo di Guy de Maupassant, “Una vita”, venne definito da Tolstoj come la massima espressione della narrativa francese solo dopo “I miserabili” di Victor Hugo. Il proposito dell’opera, pubblicata nel 1883, è quello di presentare una panoramica della condizione della donna ottocentesca, che si traduce nella storia di Jeanne, aristocratica della piccola nobiltà di provincia.
Jeanne, dopo essere cresciuta in collegio fino all’età di 17 anni, si trasferisce nella residenza dei “Pioppi” della famiglia, e qui vive un’adolescenza intrisa di sogni e aspettative per il futuro.
Sposa il visconte Julien de Lamare, del quale si crede innamorata più per desiderio giovanile di passione che per circostanze reali, ma al ritorno dal viaggio di nozze questi rivela subito la sua natura avida e meschina, che si riflette in una totale indifferenza nei confronti della moglie. A ciò si aggiungono i tradimenti, uno dei quali perpetrato con Rosalie, sorella di latte di Jeanne, finché un marito geloso provocherà la morte di Julien.
Jeanne riversa le proprie energie sull’unico figlio Paul, cresciuto in modo morbosamente protettivo dalla madre, ma l’adolescenza in collegio lo condurrà sulla strada del vizio e del gioco, prosciugando i beni di Jeanne per rimediare ai danni e risolvendosi infine nella fuga in Inghilterra con una prostituta. Il romanzo si conclude durante gli ultimi anni di vita di Jeanne in una residenza di campagna, accompagnata da Rosalie, entrambe impegnate ad accudire la nipotina affidatagli da Paul.
Sotto il titolo di “Una vita” Maupassant ha posto una epigrafe: L’umile verità. Queste semplici parole svelano quella che è una sorta di dichiarazione della propria fede artistica: sebbene gli uomini la dimentichino spesso, l’umile verità è la miseria, la sventura, la morte. L’autore disintegra uno dopo l’altro i sogni e le speranze di Jeanne, con un accanimento rigoroso, quasi insistente, senza scappatoie: ma dietro l’aggressività con cui fa precipitare gradualmente la vita della protagonista, egli sembra seguire con intima commozione il suo destino sventurato, la fugacità dei suoi desideri, le illusioni stimolate dalla giovinezza.
Maupassant traccia i tratti di Jeanne marcando in modo speciale quelli emotivi: le sensazioni, sia positive che negative, tendono a essere amplificate al massimo dalla protagonista, la cui parabola psicologica va dall’estrema speranza dell’inizio della storia, alla più cupa desolazione finale.
Per comprendere al meglio lo spirito del romanzo, però, non si può non considerare la frase con cui esso si chiude, pronunciata da Rosalie:
La vita, vedete, non è mai tutta buona o tutta cattiva come si dice…
Una smentita del carattere negativo del romanzo? Risposta azzardata, poiché Maupassant non intende ridimensionare il quadro ostile entro il quale si colloca la storia. Si tratta piuttosto di lasciare una finestra aperta. Se la vita è dolore e miseria, non è forse giusto assolvere gli uomini, in quanto esseri miserabili, imperfetti, mossi da un destino più grande di loro? Il primo contatto con la nipotina fa sentire a Jeanne un improvviso calore di vita, una commozione, un fremito d’amore che la spinge a riempirla di baci furiosi. Che si tratti di una parentesi nella devastazione della sua vita, non ha importanza. Dal basso della loro condizione, gli uomini non possono far altro che ricercare una precaria finestra nella vita dove attenuare la propria miseria. Per rendere la vita, insomma, un po’ meno cattiva di come si dice.
introduzione di Mario Picchi a “Una vita” di Guy de Maupassant, Garzanti, 2007.