Sicuramente, almeno una volta nella vita, vi sarà capitato di imbattervi in una delle opere dell’artista Barbara Kruger (Newark, 26 Gennaio 1945), il cui stile si contraddistingue per la sua immediatezza, tramite la scelta di una sorta di grafica pubblicitaria che rivela ed evidenzia frasi brevi e mirate, sovrapposte ad immagini in bianco e nero prevalentemente femminili.
Proprio come Andy Warhol, anche la Kruger è stata molto influenzata dal proprio background grafico: la scelta dello slogan deriva in parte dalla sua (seppur breve) formazione presso la Syracuse University e poi alla Parsons School of Design, che lasciò solo dopo un anno.
Di sicuro, comunque, la sua conoscenza grafica si affina successivamente facendosi strada in varie aziende pubblicistiche, come la Condé Nast Publications, per poi iniziare a collaborare con il Mademoiselle Magazine come grafica entry level, evolvendosi nel giro di pochi mesi in un’affermata head designer.
Di lì in avanti inizierà a lavorare come art director, graphic designer e picture editor in vari dipartimenti creativi, oltre a collaborare per innumerevoli pubblicazioni disegnando vari layout e copertine.
L’opera artistica che permette il successo della Kruger agisce secondo gli stessi meccanismi di un messaggio pubblicitario, servendosi in modo geniale della sue stesse tecniche di persuasione e della spettacolarizzazione del contenuto visivo.
L’intento è quello di catturare l’attenzione dello spettatore per condurlo ad un’istantanea presa di coscienza sul tema proposto dallo slogan, e quindi sul messaggio implicito contenuto in esso.
Tipicamente pubblicitari sono anche i mezzi di trasmissione e di fruizione: le strade e i giornali diventano piattaforma comune per il suo lavoro, insieme anche a grandi installazioni che occupano anche più di un’intera sala di una galleria.
Tra le più conosciute troviamo “I shop therefore I am” (1990), il cui messaggio è palesemente un riferimento alla celebre frase cartesiana “Cogito ergo sum” (penso dunque sono) reinterpretata in chiave consumistica, volta a stimolare una riflessione critica sull’età contemporanea.
In tutte le sue opere, il binomio tra testo e immagini vuole lanciare rapidamente un messaggio di denuncia sociale.
Barbara Kruger manifesta apertamente la sua opposizione alle ingiustizie politiche, economiche e sociali, scagliandosi contro il consumismo, il razzismo, la violenza, le discriminazioni e tutti gli abusi di potere.
Ma il tema a lei più caro è sicuramente incentrato sul femminismo.
L’artista si concentra a mettere in risalto le pressioni sociali e tutti gli aspetti che finiscono per costituire una sorta di violenza psicologica nei confronti della donna, andando ad invadere ogni sfera della sua vita.
Ad esempio, i temi di denuncia rappresentati nelle opere si concentrano spesso sulla visione della bellezza canonica femminile nell’età contemporanea, che deve rispecchiare i folli criteri di ricchezza, bellezza, giovinezza e magrezza, implicando anche il ricorso ad interventi di chirurgia estetica.
Ma nella rappresentazione dell’effettiva realtà dei fatti la Kruger va a demolire il messaggio dei tradizionali manifesti dell’advertising pubblicitario, basati sullo stereotipo della donna eterea e perfetta.
A questo si aggiunge anche il tema della libera scelta della donna, per molti anni oggetto di proprietà maschile, o meglio maschilista, dipendendo a lungo e tuttora dalle parole qualunquiste e irresponsabili di politici bigotti e benpensanti.
Come ci illustra il manifesto sottostante, che rivendica il diritto femminile di avere il controllo del proprio corpo e soprattutto della propria sacrosanta facoltà decisionale, prendendo in questione il tanto discusso e sofferto tema dell’aborto. Inizialmente concepito in occasione di una manifestazione tenutasi nell’aprile del 1989 a Washington sul diritto all’aborto, venne poi adottato in linea più generale come manifesto in rappresentanza alla lotta delle donne a favore dei propri diritti.
In quest’ottica si pone anche il diritto di vivere la propria vita al di fuori dello schema casalingo di moglie e madre, all’epoca ancora considerato socialmente come la più ovvia e incoraggiata (se non l’unica) aspirazione di vita di una donna.
La violenza psicologica provocata dal contesto sociale, così come dai media e dalle pubblicità, tocca così sia la sfera interiore ed emotiva della persona, sia quella pubblica, nella propria affermazione personale e sociale.
In ogni argomento discusso dall’artista, centrale è sempre il valore negato alla donna in quanto essere umano, sin dalla sua infanzia.
Più in particolare la Kruger evidenzia la repressione (ormai protratta nei secoli) di una sua coscienza propria e delle sue conseguenti esigenze di autonomia e benessere.
Questo è il risultato di uno squilibrio sociale che affida ai generi (maschile e femminile) particolari caratteristiche e doveri, senza escludere perciò la pregnanza della figura dell’uomo, educato sin dall’infanzia ai concetti di virilità, possessività, supremazia e potenza.
Modelli che generano, a lungo andare, malcontenti e violenze da entrambe le parti.
Quest’opera dell’artista Ellen Hochberg, ispirata chiaramente allo stile e alla poetica della Kruger, mette a fuoco la ricorrenza di una figura di donna inascoltata: la sua rabbia non risulta abbastanza credibile e manca di “femminilità”.
La frase posta in basso all’immagine, “It’s time for women to stop being politely angry”, appartiene al premio Nobel per la pace 2011 Lehymah Gbowee, il cui lavoro ha contribuito a porre una fine alla Guerra Civile in Liberia.
Parlando appunto dell’idea di femminilità possiamo dedurre che le controversie, le gelosie, i femminicidi scaturiti dal possesso, siano generati da un punto di vista restrittivo da parte dell’uomo nei confronti di una donna che deve adempiere a questa distorta idea sociale.
Vi è purtroppo alla base una concezione semplicistica del genere, per non dire assurda, che si tramanda da generazioni, ma cui in qualche modo in questi anni (pur escludendo alcuni paesi) sta lentamente sostituendosi una visione più equa e umana, andando anche ad abolire la questione del “gender“: considerando perciò la persona nelle sue mille sfaccettature, a prescindere che essa sia nata maschio o femmina.
L’arte di Barbara Kruger è essenziale in quanto si fa portavoce di una consapevolezza nei confronti del potere delle immagini, tenendo presente che ognuno di noi viene costantemente colpito dai loro messaggi scorretti ed allusivi in ogni pubblicità che vediamo e ovunque ci troviamo. Una gran quantità delle immagini pubblicate negli spot, infatti, si basa su concezioni sessiste, ed alimenta il pensiero di disparità di genere, talvolta incoraggiandolo.
L’ondata di denunce di molestie che va dilagandosi in questo periodo è solo un esempio dei continui assoggettamenti quotidiani, anche in ambito lavorativo, subiti da parte delle donne. Per non parlare inoltre dei numerosi ed incessanti casi di stupro che continuano a riempire i notiziari: in questi servizi abbiamo ancora a che fare con autorità e giornalisti che in qualche modo tendono a colpevolizzare la vittima, andando ad esempio ad indagare se essa si fosse esposta in condizioni di pericolo, come se questo giustificasse l’accaduto ed il carnefice.
Mentalità, questa, dura a morire, perché si basa su una concezione generalmente accettata di disparità, secondo la quale se la donna sceglie di divertirsi, di bere alcolici, o di vestirsi coprendo meno pelle, inevitabilmente e volutamente provoca l’uomo, e la responsabilità ricade interamente su di lei, anche nel caso di uno stupro.
Lo stereotipo femminile, quindi, va eliminato, e in fretta.
L’artista Barbara Kruger lo sa, ed indica questo, come ogni altro stereotipo sociale, come grossa facilitazione all’insorgere di una violenza.
Il suo lavoro si fa per cui sempre più attuale ed esprime un aiuto concreto nella battaglia dei diritti delle donne. Ma soprattutto contribuisce a proporre riflessione attiva rispetto all’immagine femminile, allargando quindi le possibilità di un cambiamento futuro del pensiero collettivo.