“Io sono un oggetto”: parole marchiate sul corpo delle donne sin dai tempi più antichi.
“Io sono un oggetto”: parole che non si vedono ma ci sono per chi, purtroppo, le riesce a vedere.
“Io sono un oggetto”: le stesse parole che Marina Abramovic ha usato per se stessa.
Chiamata “Grandmother of performance art”, la nonna delle performance artistiche, la Abramovic usa il suo corpo per “fare dichiarazioni che possono essere violente” afferma Arthur Danto, critico d’arte, “a volte provocatorie”: queste sono le performance, apparse negli anni ’60 in contrasto alla pittura, in cui il mezzo espressivo diventa il corpo.
“Io sono un oggetto”: così venne trattato il corpo di Marina, 43 anni fa.
Nel 1974 l’Abramovic ha proposto una delle performance che, forse, ha scosso maggiormente media e spettatori: Rhythm 0.
Lo Studio Morra di Napoli è il luogo in cui Marina si è affidata totalmente e letteralmente a degli estranei.
“Io sono un oggetto”: questo Marina aveva scritto su un biglietto lasciato sul tavolo.
“Ci sono 72 elementi sul tavolo e si possono usare liberamente su di me. Premessa: io sono un oggetto. Durante questo periodo, mi prendo la piena responsabilità di ciò che accade”.
I settantadue oggetti potevano provocare piacere ma anche dolore. Piume, profumi, fruste, lamette, catene, scarpe, armi erano solo alcuni dei tanti oggetti che potevano venire usati sull’artista.
Settantatré oggetti: settantadue sul tavolo, un altro in piedi, di fronte agli spettatori.
La performance iniziò alle ore 20 e durò per ben 6 ore, fino alle 2 di notte. Thomas McEvilley scrisse
“tutto iniziò in maniera docile e timida; poi qualcuno iniziò a farla trotterellare prendendola in giro, ad alzarle le braccia a mo’ di marionetta, poi qualcun altro iniziò a toccarle le parti intime. La scena napoletana cominciò a scaldarsi. Durante la terza ora tutti i suoi vestiti erano già stati tagliuzzati. Durante la quarta ora la sua pelle venne esplorata dalle lame del rasoio. Le si squarciò la gola quel tanto che qualcuno poté succhiarle il sangue”.
Qualcuno del pubblico provò a difenderla mentre gli istinti più violenti venivano man mano allo scoperto: venne legata, palpata, venne frustata nel ventre con le spine delle rose e tagliata con lamette. Infine le misero nelle sue stesse mani una pistola carica, appoggiata direttamente al collo e il dito della stessa artista appoggiato sul grilletto.
“Io sono un oggetto”: è così che venne trattato il corpo di Marina, e anche i suoi sentimenti. Le lacrime le scorrevano sulle guance mentre le poche anime ancora in grado di essere persone, e non animali, provavano ad asciugarle.
Marina, in seguito, ha commentato
“questo lavoro rivela qualcosa di terribile sull’umanità. Dimostra quanto velocemente una persona può far male in circostanze favorevoli. L’esperimento mostra come sia facile disumanizzare, abusare di una persona che non lotta, che non si difende. Dimostra inoltre che, fornendo lo scenario adatto, la maggior parte della persone apparentemente “normali” può diventare estremamente violenta”.
Quando è finita la performance, Marina, nonostante il suo corpo fosse visibilmente tumefatto, si rivestì e camminò per la sala, guardando gli stessi visi di coloro che poco prima l’avevano davvero trattata come un oggetto, dimenticandosi di avere davanti una donna, e che adesso si comportavano come se nulla fosse successo.
Marina Abramovic è riuscita in un’unica performance a far sentire la storia di migliaia di donne.
Migliaia di donne che vengono disprezzate, maltrattate, violentate da estranei e dai propri partner, si vergognano e non hanno il coraggio di gridare contro i soprusi.
Non hanno il coraggio di gridare:
“IO NON SONO UN OGGETTO”.
Un commento su “La donna come oggetto: Marina Abramovic”