Am I asking for it?

Per “asking for it” si intende quell’atteggiamento tale per cui si cerca nella persona vittima di violenza (statisticamente il più delle volte donna o ragazza) un coinvolgimento dettato dal suo abbigliamento. Per intenderci, l’atteggiamento per cui se una donna viene stuprata e al momento del reato aveva una minigonna si tende a pensare “eh va be ma non doveva uscire così, se l’è cercata”.

Questo modo di pensare in psicologia è chiamato “blaming of the victim” (“colpevolizzazione della vittima”) e consiste nello spostare la colpa e la responsabilità dell’atto dalla persona che l’ha compiuto a chi l’ha subito. Nel nostro caso dal molestatore alla vittima. Questo è un vero e proprio escamotage utilizzato in più campi da chi compie un’azione sbagliata, dal bullismo ai crimini di guerra. Infatti, durante la Seconda Guerra Mondiale i criminali nazisti utilizzarono questa forma mentis per alleggerirsi la coscienza e cercare in qualche modo di giustificare i loro atti violenti.

Ma perché questo modo (sbagliato) di pensare è così diffuso?

È un modo per sentirsi sollevati dalla pesantezza di ciò che si è compiuto: se si riesce a spostare la colpevolezza sulla vittima dicendo cose come “se l’è andata a cercare”, allora ci si sente immediatamente più leggeri e in un certo senso giustificati. Si rifiuta la propria responsabilità.

Quando la colpevolizzazione della vittima viene applicata ai casi di molestia in relazione agli abiti che la vittima indossava al momento dell’accaduto, si creano a livello sociale regole riguardanti il vestiario che vengono facilmente interiorizzate. Questo porta inevitabilmente però ad una limitazione dell’espressione di sè attraverso l’abbigliamento. Non ci si sente più sicure nel mostrare troppo le gambe o nell’indossare vestiti attillati e “rivelatori”: le donne inconsciamente assorbono il concetto di colpevolizzazione della vittima e di sessualizzazione del corpo femminile.

E’ evidente come la popolazione femminile è quella maggiormente penalizzata da questo punto di vista, poichè non esistono a livello sociale norme che regolizzino in egual modo l’abbigliamento maschile.

Il blaming of the victim un concetto trattato da Laura Bates nel suo libro Everyday Sexism, collegato all’ Everyday Sexism Project da lei ideato. Attraverso questo progetto Laura Bates ha voluto raccogliere testimonianze reali inviate da migliaia di persone da tutto il mondo sul tema del sessismo nella società di oggi e in seguito al successo riscosso da questo movimento, si è arrivati alla pubblicazione del libro. La Bates riconosce la colpevolizzazione della vittima come uno dei principali fattori silenziatori delle molestie sessuali e le testimonianze da lei ricevute provano come questo sia un grave problema per la società di oggi (purtroppo sottovalutato).

La verità è che nessuno è colpevole al di fuori del molestatore stesso: niente dà il diritto di invadere lo spazio personale di un’altra persona, indipendentemente da ciò che indossa e da quanto i suoi abiti mettano in mostra il corpo. I molestatori non sono animali, sono persone e in quanto tali dovrebbero essere in grado di controllare i propri istinti e le proprie voglie se vogliono vivere in una società.

“Dovrebbe essermi permesso di indossare ciò che voglio e sentirmi a mio agio e sicura di me e salva”

Afferma Rebecca Brown, giovane youtuber, nel suo video You Shouldn’t Wear a Low Cut Top (Non Dovresti Indossare Un Top Scollato) dove parla proprio di questo argomento raccontando una sua esperienza personale. E non c’è niente di più vero: bisognerebbe sentirsi sicuri e tranquilli ad indossare qualsiasi cosa, senza temere che questo ci porti a vivere un’ esperienza spiacevole; in questo caso la colpevolizzazione della vittima diventa una vera e propria limitazione all’espressione personale, poiché gli abiti sono uno dei principali mezzi con cui presentarsi agli altri ed esprimere ciò che siamo.


FONTI

Laura Bates, Everyday Sexism, Simon & Schuster, 2015

psycologytoday.com

CREDITS

Pinterest

 

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