Alice, la più bella di tutte le belle.

Alice è l’unica Alice plausibile, quella nel Paese delle Meraviglie. Ed è anche l’unico personaggio costante, coerente per tutta la canzone: il resto è solo abbozzato, sono frammenti, pezzi di vita incastrati nelle note.

Tutto tranquillo, all’inizio: Alice guarda i gatti, i gatti guardano nel sole e il mondo gira senza fretta. Nessun problema, nessuna preoccupazione e, soprattutto, troppo poco materiale per una storia. Ma questa canzone non parla di Alice, questa canzone parla di un mondo di ideali, di valori, parla di spensieratezza, di convenzioni sociali, di infelicità.

E mentre la nostra Alice continua a guardare i gatti-che-guardano-nel-sole, Irene, intanto, al quarto piano, è lì tranquilla che si guarda nello specchio e accende un’altra sigaretta; La stessa Irene che, stesso album, altra canzone, è alla finestra e tanta gente per la strada, è alla finestra e tanta gente al suo suicidio. Fin qui ci siamo, direi. Alice guarda i gatti, i gatti guardano nel sole, Irene in finestra si accende una sigaretta, è infelice e sta pensando al suicidio.

E Lili Marleen? Bella più che mai, sorride e non ti dice la sua età. Qui ci siamo fermati anche noi: per incapacità o rifiuto di capire, per rispetto nei confronti di una donna ormai adulta che, con un sorriso forse ammiccante, difende dignitosamente la propria bellezza. Insomma, mettetela come vi pare: questa immagine è bellissima e non ha bisogno di altro.

Ma comunque, la cosa importante, è che i gatti, il sole, Irene, il suicidio, la bella Lili Marleen ad Alice non interessano, o meglio, non la riguardano: tutto questo Alice non lo sa.

Prima di tornare sull’affaire Alice, il ritornello. Lo riportiamo per amor di brevità, per evitare di mortificarlo con un commento, perché merita:

“Ma io non ci sto più!”, gridò lo sposo e poi tutti pensarono dietro ai cappelli “lo sposo è impazzito, oppure ha bevuto”, ma la sposa aspetta un figlio e lui lo sa: non è così che se ne andrà.

Un’altra scena, quindi, completamente avulsa da quelle precedenti: uno sposo che abbandona la sposa sull’altare, che sembra per un istante voler rifiutare le convenzioni sociali e quei cappelli giudicanti, ma poi ci ripensa: la sposa aspetta un figlio. E lui lo sa. È suo compito rimanere, almeno per un altro po’.

Dopo il ritornello, Alice è ancora lì a guardare i gatti, il sole si avvicina e Cesare, intanto, perduto nella pioggia, sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina. Cesare, questa volta, non è l’unico Cesare plausibile ma, forse, l’unico realmente coerente con il testo della canzone –se di coerenza possiamo parlare-: Cesare Pavese. Che una sera conosce una ballerina in un locale e le chiede di vedersi; lei sbadatamente accetta, poi forse si dimentica. E lui, complice il suo estro artistico, la sua anima sensibile e frantumata, la aspetta sotto la pioggia fino ad ammalarsi. E mentre lui rimane lì, a bagnarsi ancora un po’, mentre il tram di mezzanotte se ne va, Alice è ancora ignara, ancora fuori da tutto questo.

Secondo ritornello, la situazione sembra essere immutata: dopo una ribellione da parte dello sposo, ci aspettiamo ancora una volta i citati cappelli, gli sguardi contrariati della gente, eppure De Gregori ci regala un grido liberatorio: Ma io non ci sto più, e i pazzi siete voi!, dice lo sposo. E si schiera dalla parte di Alice che, nel Paese delle Meraviglie, di cappelli deve averne visti tanti, e di ogni tipo.

È stato detto tanto, a proposito di Alice: che fosse una canzone che parla di giovinezza, di ingenuità, di spontaneità, di una bontà tutta infantile; di ribellioni sociali, di libertà, di sogni; tutto vero. Alice è il filo conduttore, ma le storie sono le protagoniste del testo: da Irene, una donna infelice che vuole suicidarsi, a Lili Marleen, semplicemente bella più che mai; da Pavese e la sua ballerina a un mendicante arabo malato.

L’ultima strofa, infatti, parla di un mendicante non meglio identificato che ha qualcosa nel cappello ma è convinto che sia un portafortuna. Indipendentemente dal non casuale riferimento al cappello, questa frase nella prima versione della canzone era diversa: un mendicante arabo ha un cancro nel cappello ma è convinto che sia un portafortuna. Poi, un po’ per assonanza, un po’ perché la parola “cancro” è sgradevole da sentire, il testo viene cambiato e quel “cancro” diventa “qualcosa”: un mazzo di carte, un bracciale, un coniglio, forse. Non importa, perché lui è convinto che sia un portafortuna. Ma, ancora una volta, Alice non sa. E gli altri personaggi? Lo sposo sa che sta per diventare padre: la sposa aspetta un figlio e lui lo sa. Ed è proprio la consapevolezza a renderlo incapace di ribellarsi alle convenzioni sociali. Irene è infelice, sa di esserlo, sa che sta per togliersi la vita. Pavese sa che la ballerina non arriverà mai? Ci piace pensare di no, ma il tram di mezzanotte se ne va: anche lui non ha più speranze.

Ecco che allora Alice diventa una canzone quasi paradossale, uno spaccato di vita quotidiana all’interno del quale i suoi personaggi si muovono in maniera tutto sommato normale, con il proprio dolore, il proprio rammarico, la tristezza, l’infelicità. E Alice, in tutto questo non sa. E proprio perché non sa, non ha bisogno di ribellarsi, di pensare; le basta un coniglio bianco e un cappello volante per poter andare lontano.


FONTI
Fonte 1 : Francesco De Gregori, Alice.

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