Un fulmine, un lampo, una corda tesa e penzolante nel nulla. Questa è stata la morte di Alexander McQueen: un evento che ha scosso le fondamenta del mondo della moda con la forza di un uragano. Il fragile genio dell’haute couture ha lasciato troppo presto quella balia amorevole che l’aveva cullato, apprezzando e coltivando il suo straordinario talento in una continua crescita personale ed artistica.
La sua repentina ascesa e la fama di enfant terrible volto a provocare, a scioccare e allo stesso tempo a rompere tabù sono la cifra del suo successo, del culto che si è creato attorno alla sua immagine. Per lui, nato da una famiglia di estrazione operaia nel 1969, le luci della ribalta sembravano piuttosto lontane quando, a soli sedici anni, lasciò la scuola per entrare nel mondo della sartoria. Ma furono le stesse passerelle a venirgli incontro, come accade ad ogni uomo che è segnato da un destino ormai scritto: dopo il breve apprendistato presso Anderson & Sheppard e i costumisti teatrali Angels & Bermans, parte alla volta dell’Italia per lavorare al servizio di Romeo Gigli. Tornato in patria, si perfeziona alla prestigiosa Saint Martin’s School of Art, un ambiente ricettivo e propositivo, dove il giovane Alexander può dare libero sfogo alla sua creatività. E proprio quest’ultima sarà notata da Isabella Blow, talent scout che acquisterà interamente la prima collezione di McQueen -quella creata come ‘prova di fine corso’ alla Saint Martin.
È una carriera che non potrà essere che in ascesa. Direttore artistico di Givenchy dal 1996 al 2001, aveva già inaugurato una linea di abbigliamento con il suo nome nel 1995. Dopo aver lasciato la maison francese definendola “costrittiva per la propria creatività” si unisce nel 2001 al gruppo Gucci, continuando a firmare indipendentemente le proprie collezioni. Lo stile gotico, i richiami ad un mondo scomparso e lontano diventeranno una sua peculiarità presto riconoscibile e accolta positivamente, tanto dalla critica quanto dal pubblico.
Sono le sue sfilate, tuttavia, a destare scalpore. McQueen le organizza come eventi in grande stile, una forma quasi stereotipata di performing art con un solo obiettivo: quello di scandalizzare, e tramite lo shock, fare arte. Inizia presto, con la presentazione della collezione 1995/1996: Higland Rape (letteralmente: “lo stupro delle Highlands”, metaforicamente: “lo stupro dell’Inghilterra nei confronti della Scozia”). Il classico tartan viene brutalmente estratto dal contesto di canone ormai assodato della tradizione culturale britannica e distrutto, stracciato, spezzato. Diventa un simbolo straziato, un fantoccio inutile e vuoto che McQueen, volontariamente, rende tale. La stampa lo riempie di critiche, lui prende la parola e spiega: “Non voglio fare un cocktail party, preferisco che la gente vomiti e abbandoni il mio show. Preferisco le reazioni estreme”. Ma non finisce qui. Tre anni dopo è la volta di Aimee Mullins. La modella, amputata di entrambe le gambe, sfila a grandi passi con protesi di legno intagliato sotto una pioggia di vernice spruzzata da robot provenienti da una catena di montaggio. Ci si chiede cosa avrebbe potuto tirar fuori dal cilindro, se avesse continuato. Ma ora la musica si è fermata, tutto questo -purtroppo- si è silenziosamente spento.
Questo era Alexander McQueen. La stagione all’inferno dell’haute couture. Il poeta contro la vanità, lo stilista contro la moda. La fragilità travolta dalla tragedia. Per molti artisti è la morte a trasformare una vita sommessa in leggenda. Per Lee Alexander McQueen così non è stato: lui era già leggenda.