La parte prima si intitola Paradiso ricordato: talmente bella da risultare irreale, così lontana da essere sfumata tra i ricordi. E le prime due parole sono Lo Svedese. Il protagonista, subito, buttato sulla pagina: Lo Svedese-punto.
Lo Svedese cioè un ex campione di football, il ragazzo più popolare del liceo, fidanzato con la più bella della scuola.
Quest’uomo vuole solo essere guardato. È sempre stato così. Non è un trucco, tutta questa verginità. Tu cerchi abissi che non esistono. Quest’uomo è l’incarnazione del nulla.
Prima di tutto, qualche parola sul narratore. Il libro inizia quando è tutto già accaduto: l’intera storia è scritta in flashback. E il narratore non è Lo Svedese: sarebbe troppo banale. Il narratore è uno scrittore che nelle primissime pagine racconta di essere andato alla quarantacinquesima riunione dei suoi ex compagni di scuola e di aver incontrato un suo vecchio amico, Jerry Levov, fratello di Seymour Irving Levov, ossia lo Svedese. E la storia che il nostro scrittore decide di scrivere è proprio quella che Jerry gli racconta a proposito del fratello.
Nella vita dello Svedese doveva esserci stata la coscienza e doveva esserci stata la sventura. Eppure, non riuscivo a immaginare la forma presa dall’una e dall’altra, non riuscivo ancora a vedere dentro di lui: nel residuo della mia immaginazione adolescenziale ero sempre convinto che quella dello Svedese fosse stata una vita interamente priva di dolori.
Campione di football, popolare, fidanzato con la reginetta d’America: lo abbiamo detto e lo ripetiamo; è fondamentale tenere a mente questi dati per comprendere la storia. Lo Svedese lavora con il padre in una fabbrica di guanti, lui e la moglie comprano una casa in campagna, decidono di avere una famiglia: una vita interamente priva di dolori. Una di quelle felicità che possono essere distrutte solo da un lutto, da una malattia, da una disgrazia. Dalla morte, da un’enorme delusione, da un licenziamento, dalla povertà improvvisa. Da una figlia ribelle, in lotta con i genitori, problematica; da una figlia complessa, infelice. Da una figlia terrorista.
Non vi lamentate adesso, non vi abbiamo svelato nulla. Philip Roth non ha scritto un giallo, la piccola Merry, la piccola, balbuziente Merry che mette una bomba in un ufficio postale non è il punto di arrivo della nostra storia: è la partenza. Ma, comunque, indipendentemente dalla posizione che occupa nella geografia di questo libro, Merry non sarà il nostro, di punto. Perché sarebbe impossibile cercare di comprenderla: scompare quasi subito. Una bomba in un ufficio postale e poi via, lontano da tutti.
Pastorale americana non è un libro sui drammi familiari, non è un libro che racconta l’infanzia, l’adolescenza di una ragazza cresciuta con il peso di due genitori perfetti, o la guerra in Vietnam. Il romanzo di Philip Roth non parla di niente di tutto ciò e allo stesso tempo comprende ogni più piccola sfaccettatura di questi temi: li mette insieme e dà vita a un libro che non ha più un unico tema, una storia, uno sviluppo. Pastorale americana racconta uno spaccato di società americana, la morale di questo paese, il mondo di valori, i suoi pregi e difetti. Ribalta gli stereotipi, per cui un giocatore di football e una reginetta risultano in realtà persone normali, intelligenti, che lavorano e che si danno da fare come tutti; mostra come i pregiudizi possano storcere la realtà, come le cose appaiano come le vediamo unicamente perché ormai non riusciamo a concepirle in un altro modo; e ogni tanto lancia qualche colpo basso, qualche pugno nello stomaco, per tenere alta l’attenzione e non farci distrarre; per farci ricordare che Merry, la piccola, balbuziente Merry figlia dello Svedese, la bella, dolce, intelligente e sofisticata Merry, una mattina si è svegliata e invece di andare a scuola ha deviato, è arrivata davanti a un ufficio postale, ha buttato una bomba, si è fermata a guardare lo spettacolo per qualche secondo, e poi è sparita nel nulla.
E, nella vita di tutti i giorni, nient’altro da fare che continuare rispettabilmente ad avere l’enorme pretesa di essere se stesso, con tutta l’onta di essere, invece, solo la maschera di uomo ideale.
Fonte 1: Philip Roth, Pastorale americana.