Basta con le solite chiacchiere da bar, che vedono l’Italia come un paese dove ormai chiunque ha una laurea. Questo è quanto sostiene il nuovo rapporto stilato dall’OCSE (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sui laureati in Italia. In questo rapporto, la situazione in Italia risulta decisamente al di sotto dello standard di altri paesi occidentali. Solo il 20% degli italiani tra i 25 e i 34 anni è in possesso di una laurea, contro una media del 30% in area OCSE. Inoltre, un quarto dei giovani tra i 15 e i 29 anni nel nostro paese non studia e non lavora. E tra chi sceglie di laurearsi, il 35% finisce in un’area lavorativa che ha poco a che fare con il corso di studi seguito.
Ma cosa vogliono dire esattamente questi dati poco incoraggianti? Innanzitutto, bisogna precisare che l’organizzazione non stabilisce dei parametri di quantità ideale di laureati. L’OCSE non prevede che il livello ottimale di laureati sia del 30%, e che l’Italia sia al di sotto di 10 punti. Non è il 20% il dato più rilevante che emerge: il 20% è una conseguenza. Il 20% deriva da un contesto socio-economico ben preciso, diverso da quello di altri paesi occidentali. Altrimenti non si spiegherebbe la gravità della situazione. Basterebbe incentivare l’iscrizione all’università, aumentare il netto delle matricole, e saremmo tutti istruiti e contenti. Non si spiegherebbe nemmeno perché ci si lamenti sempre del fatto che “al giorno d’oggi si laureano cani e porci”. Perché si ha questa percezione, se i numeri ci dimostrano che la realtà è un’altra?
L’università sta diventando sempre più un lusso, e non un’opportunità. Si studia per interesse personale, non perché aiuti anche (e giustamente) in ambito lavorativo. D’altronde, se 7 laureati su 20 impiegano anni di fatica per una laurea che si rivela inutile sul posto di lavoro, qual è l’incentivo? Si crea così una situazione schizofrenica, in cui da un lato alcuni giovani perdono interesse nel continuare gli studi, dall’altro i pochi che studiano iniziano una vera e propria competizione sulla qualifica. Ecco che arrivano diplomi di perfezionamento, dottorati di ricerca, master di I e II livello. Anche se, a guardare bene, non sarebbero poi così necessari: è sempre l’OCSE a rivelare che il 18% dei lavoratori italiani è “sovra-qualificato” per la mansione che svolge.
Anche a fronte di un fenomeno come la “fuga di cervelli”, che non accenna a diminuire, è chiaro che il problema non è nel numero troppo basso di laureati. Il problema è nella scarsa richiesta di lavoratori qualificati nel mercato del lavoro italiano. Per usare concetti di economia politica di base, quella che viviamo è una crisi della domanda (da parte dei datori di lavoro), non dell’offerta (dei lavoratori qualificati). Tra le due c’è attualmente un divario, con l’offerta che supera la domanda. Delle due l’una: o si riduce l’offerta, o si aumenta la domanda. Se equipariamo i lavoratori qualificati ai laureati, ridurre l’offerta diventa un gioco da ragazzi, magari adottando misure che già in molti chiedono, come il numero fisso in ogni facoltà. Ma questa soluzione non risolve il problema di fondo, non crea opportunità per il futuro, non cambia la situazione da quella attuale.
Contrariamente a quanto riportato dai più, è l’OCSE per prima a rendersi conto di tutto questo. Il rapporto, infatti, non si ferma all’enumerazione meccanica di dati sulla presunta inferiorità dei lavoratori italiani. Tra le linee guida, infatti, spicca la seguente: “L’Italia deve migliorare l’allineamento tra domanda e offerta di competenze“. L’OCSE, dunque, sottolinea l’importanza di avvicinare mondo della formazione e mondo del lavoro. In Italia abbiamo una fortissima presenza di piccole e medie imprese, il che potrebbe rappresentare un problema. Secondo OCSE queste imprese favorirebbero il ristagno delle competenze, perché non offrirebbero opportunità o incentivi sufficienti ai lavoratori altamente qualificati. Si legge nel rapporto:
Accanto a molte imprese, relativamente grandi, che competono con successo sul mercato globale, ve ne sono tante altre che operano con un management dotato di scarse competenze e lavoratori con livelli di produttività più bassi. Modesti livelli di skills dei managers e dei lavoratori si combinano con bassi investimenti in tecnologie che richiedono alte competenze dei lavoratori e con scarsa adozione di pratiche di lavoro che ne migliorino la produttività. […] In Italia, le imprese a gestione familiare rappresentano più dell’85% del totale, e circa il 70% dell’occupazione del paese. Ma i manager delle imprese a gestione familiare spesso non hanno le competenze necessarie per adottare e gestire tecnologie nuove e complesse. Inoltre, il livello dei salari in Italia è spesso correlato all’età e all’esperienza del lavoratore piuttosto che alla performance individuale, caratteristica che disincentiva nei dipendenti un uso intensivo delle competenze sul posto di lavoro.
Come uscirne? E’ indubbio che a partecipare dovranno essere tutte le parti sociali. Il governo in primis, ma anche imprese e lavoratori. E se da una parte l’OCSE promuove manovre come la Buona Scuola e il Jobs Act, dall’altra riconosce che ancora molto si può fare. Soprattutto in fatto di investimenti pubblici e riduzione del carico fiscale. E anche se il risultato non è dei più rosei, non bisogna vivere il rapporto dell’OCSE come una sconfitta. Bisogna prendere atto della situazione e cercare in ogni modo di cambiarla. Perché non è impossibile.