Domenica scorsa i cittadini di Lombardia e Veneto si sono recati, più o meno numerosi, alle urne per votare al fine di concedere una maggiore autonomia alle Regioni e poter così trattenere più tasse in loco, senza dover sottostare alla ridistribuzione del governo centrale, svantaggiosa per le Regioni più ricche (basti pensare che i cittadini lombardi, producendo il 22% del PIL nazionale, “donano” alle casse dello stato un importo che varia, a seconda delle rilevazioni, dai trenta ai sessanta miliardi di euro l’anno). Il referendum, che ha assunto fondamentalmente la forma di un plebiscito, con il “sì” quasi unanime in entrambe le Regioni, parte da basi condivisibili, anche considerando che gli abitanti di Lombardia e Veneto insieme ammontano a più del 15% della popolazione italiana, ma ha però radici tecniche-economiche meno solide delle sue idee, risultando più che altro un ottimo slogan dei governatori Maroni e Zaia, anziché un primo passo per il tanto auspicato federalismo fiscale.
Tralasciando il disastroso primo tentativo di voto elettronico, con ritardi e rallentamenti in tutti i seggi, va innanzitutto detto che i sostenitori del “sì” hanno spesso lasciato intuire che il referendum avesse, in fondo, gli stessi obiettivi di quello catalano, e cioè auspicare a una ritrovata indipendenza e una scissione dall’Italia. Cosa che, in realtà, a lungo andare lascerà soltanto un brutto amaro in bocca, visto che il referendum ha come unico obiettivo un aumento delle competenze delle Regioni al fine di trattenere entro i confini amministrativi delle due Regioni il denaro necessario all’esercizio di dette competenze. Inoltre, la possibilità di trattenere più denaro in loco porterà a un minor trasferimento di quelle risorse dello Stato che dovranno comunque essere trasferite al governo centrale, lasciando sostanzialmente invariata la situazione fiscale lombarda e veneta (con buona pace dei propositi di Zaia, che vorrebbe trattenere in Veneto i 9/10 delle tasse riscosse). Giusto o sbagliato che sia quest’ultimo dato di fatto, che sicuramente non poteva essere ignorato dai due governatori di Lombardia e Veneto, sembra facile pensare che il referendum abbia avuto soltanto finalità propagandistiche, anziché di concreto miglioramento della ridistribuzione del gettito fiscale fra le diverse Regioni.
Ciò non toglie che i sostenitori di un Nord Italia più autonomo e fiscalmente autosufficiente abbiano dalla loro ragioni più che valide: sembra infatti un sopruso, soprattutto in Lombardia, produrre più di un quinto del PIL italiano e dover dare in solidarietà parte di questa ricchezza a Regioni il cui tasso di corruzione è senz’altro più elevato che nel Nord Italia, con la conseguenza di pagare delle tasse non per garantire un miglioramento della condizione di vita di una parte di popolazione con meno opportunità, ma per sovvenzionare una logica mafiosa e corrotta. Questo risulta ancor più insopportabile se si pensa che la nostra Costituzione ha dato uno statuto speciale a cinque Regioni, i cui abitanti hanno privilegi notevoli per il solo fatto di esserci nati. A tal proposito, e per una maggiore giustizia regionale, le strade che potrebbero essere percorse sono due: o si eliminano le particolarità locali e si accentua il valore del governo centrale, perseguendo, su una strada di unitarietà nazionale, la tanto auspicata ma mai attuata lotta alla corruzione; o viceversa si accentuano le autonomie regionali, arrivando a un vero e proprio federalismo fiscale, per cui ogni Regione avrà servizi sulla base delle tasse riscosse. Strada, quest’ultima, che sembra comunque più onesta ed equa per tutti gli abitanti italiani. Un dilemma e una scelta politica che, comunque, di certo non risolverà un referendum consultivo.