Salvador Espriu, un tributo alla cultura catalana

“Libertà va cercando, ch’è sì cara,

come sa chi per lei vita rifiuta”

(Dante, Purgatorio, canto I vv. 70-72)

Prima dei giornali, delle tv, delle immagini che offendono l’umanità, dei pensieri che dividono, delle parole che offendono, delle dignità calpestate, prima ancora delle rivendicazioni e delle risposte, dei voti e dei rifiuti… c’è stato un amore battuto poeticamente.

“[…]e amo inoltre con un

disperato dolore

questa mia povera,

sporca, triste, sventurata patria”(Assaig de cantic en el temple)

Questi versi sono di Salvador Espriu i Castelló (Santa Coloma de Farners, 1913 – Barcellona, 1985), poeta e narratore catalano.
La sua avventura di intellettuale si comprende sotto la luce di un personalissimo esistenzialismo, che non rifiuta l’eredità della generazione che lo precede (da Valle-Inclán a Joaquim Ruyra).
Lo scrittore, già dalle primissime, quasi acerbe, prose, si fa interprete di un momento cruciale della cultura catalana (vive a la guerra mondiale, la guerra civile, il franchismo…), elaborando strumenti intellettuali che fossero le armi del suo vigoroso impegno. Tutta la sua produzione, dal versante lirico, all’espressione narrativa e teatrale, è la manifestazione di una tensione continua che conduca alla libertà, dell’individuo singolo e della collettività catalana.

Il dopoguerra pone non pochi problemi circa la coesistenza di culture diverse, di espressioni differenti in un unico stato autoritario. La prima trincea che Espriu sceglie per sé è la poesia, vissuta come mezzo privilegiato per attestare la propria solidarietà dolente con la gente perseguitata.
La sua è la risposta del poeta, dell’esistenzialista, dello studioso di lettere antiche: i suoi versi sono la testimonianza più partecipata dell’imperativo interiore di incanalare il disordine di una esperienza in un flusso vitale.

 

“Il sogno di libertà diviene la catena

che mi lega per sempre al mio canto doloroso” (Prometeo)

La guerra civile (1936-1939) segna per Salvador Espriu il passaggio al genere teatrale, con opere ispirate dall’orrore per la lotta fratricida.
Nel 1939 scrive Antigone, pubblicato nel 1955, strumento offertogli dall’immaginario classico come allegoria della guerra civile: Espriu porta nella letteratura una morale della riconciliazione. L’unica via di salvezza, cioè, che sembrava possibile in un mondo dominato dall’assurdo, condannato a morte, alla deriva, abbandonato da un Dio senza misericordia.
Ma vera gemma preziosa della letteratura catalana è Primera història d’Esther (1948), un pezzo teatrale, espressione linguistica tra le più vive e dinamiche: arcaismi che convivono con dialettalismi e cultismi, parole sedimentate nella memoria dell’autore durante l’infanzia accanto a prestiti lessicali, giochi linguistici d’ogni tipo…
Ciò che emerge è, sotto il vezzo linguistico, oltre il gioco funambolesco delle parole usate con la mano sicura dell’esperto, l’impressione di una realtà originariamente compatta, sbriciolatasi in frammenti, mentre Espriu appare teso alla ricerca della porzione di verità di cui ciascuno di quei frammenti è portatore.

Gli anni ’50 segnano il ritorno alla poesia. La produzione lirica di Espriu è ricca: spuntano alcune punte di iceberg.
Cementiri de Sinera è l’avvio della peregrinazione del poeta, vivo tra i morti, morto tra i vivi: si tratta della rappresentazione speculare ed elegiaca dei luoghi d’infanzia, della sospensione di quei luoghi in una dimensione senza tempo, della riproduzione ridotta e concentrata del mondo catalano. Come luogo della memoria, Sinera è popolato di figure dell’esperienza personale, ma anche collettiva, un mondo cangiante, in trasformazione incessante, e incessantemente alla ricerca di una identità meno iridescente.
L’epigrafe dantesca “Non so chi sia, ma so ch’e’ non è solo” (Purgatorio, canto XIV, v.4) apre la raccolta Les Hores (1952) e segna in modo eloquente la volontà di Espriu di farsi capo carismatico di tutti gli uomini prigionieri del disordine. L’intensità del sentimento gli deriva dalla condizione storica, ancora una volta: di fronte alle violenze della guerra civile prima, del dopoguerra poi, la tensione del poeta si fa altro rispetto al suo timbro, per essere una fonte di speranza comune e allargata.

In conclusione:  La pell de brau (1960), forse vero baluardo della sua sofferta ansia di libertà.
Innanzi tutto, l’utilizzo della propria lingua, quella catalana, come ipotesi di salvezza sua e della collettività: le vecchie parole, le “lance immortali” (cfr. Les oliveres) come armi imperiture. Il mito di Sinera è ora sostituito da Sefarad, termine usato dagli ebrei della diaspora per designare la penisola iberica. La metafora poetica dissolve i confini politici dello stato: senza timore di censura, Espriu denuncia le basi del regime franchista, la politica di repressione e censura, l’intransigenza del regime verso i diversi popoli della penisola spagnola.

“Io, solitario

lettore di profetici

voli di falchi, vorrei

guidare così dolorosi

sogni degli altri uomini

verso chiarori lontani

di quel cielo” (Les oliveres)

 

Fonti: Salvador Espriu, Cristallo di parole, L’Aquila, Japadre, 1989

Credits (freeimages): immagine

 

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