Quando si tratta di grandi classici, risulta sempre quasi offensivo stringere una riflessione in poche righe, considerata la mole della critica letteraria dedicata a queste grandi opere nel corso dei secoli. Per non scivolare nella semplificazione, è forse meglio focalizzarsi su quei dettagli che, partendo dal piccolo, aggiungono un tassello al capolavoro. Ai fini del tema che si vuole trattare, è bene dunque prestare attenzione a una celebre ottava dell’Orlando Furioso:
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non hanno mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.
È la parte del poema dedicata ad Astolfo sulla luna, quella che ogni studente ricorda anche solo vagamente dai tempi della scuola, per la suggestività della situazione e anche perché due professoresse su tre intimano di impararla a memoria. L’immagine è quella di un paladino che si reca sulla luna per recuperare il senno perduto di Orlando furioso, e lassù trova enormi distese senza fine delle cose perse dagli uomini durante la loro vita. Solo una cosa non c’è: la follia, poiché quella è l’unica presenza imprescindibile nella vita umana.
Al di là della perfezione stilistica e del fascino del romantico motivo lunare, ciò che sorprende è la risonanza di queste parole nell’intimo di un lettore che, cosa non trascurabile, si colloca nel tempo 500 anni dopo. A chi non è mai successo di farsi domande sulla fine che fanno tutte le cose che perdiamo? Se esista un luogo dove recuperare il tempo sprecato, se un sentimento si depositi per sempre in fondo a noi o se voli via; se sia possibile dare una veste fisica a ciò che ci scivola dalle mani e dall’animo e un giorno presentarsi da qualcuno, con una bella lista, e dire adesso è finita, mi ridia ciò che è stato mio, grazie. E tornarsene a casa coi propri desideri. Non è un caso che le prime cose perse citate da Ariosto siano le lacrime e i sospiri degli amanti e il tempo perso nel gioco e nell’ozio. In primo luogo perché amore e pigrizia sono due vizi assai diversi, ma che dispongono entrambi della potenzialità di annichilire e forse distruggere gli uomini, e poi perché sono vizi in cui è incredibilmente facile inciampare. Anche se, almeno il primo, può sì distruggere, ma anche ricostruire un uomo.
La luna è un luogo particolarmente congeniale a questo tema. La sua lontananza dalla Terra non simboleggia soltanto la distanza tristemente incolmabile tra gli uomini e le cose perse, ma anche la sostanziale vanità dei desideri: nello stesso tempo in cui l’uomo si dimena una vita intera alla ricerca di ricchezza, fama, autorità, apparenza, il chiarore della luna illumina la goffaggine di desideri che di fatto sono inutili. Il silenzio della luna si pone in una dimensione superiore e contrastante alla frenesia della rumorosa vita mondana, una luce diversa rivela ciò che non è dato sapere se non ad un altissimo livello di saggezza.
Il tema della rincorsa, della ricerca affannosa, dell’inseguimento di desideri irraggiungibili, è il cuore pulsante del poema. Il lettore appassionato saprà riconoscere che non si tratta semplicemente di una storia di donne, cavalieri, armi e amori, bensì di una straordinaria enciclopedia morale, che svolge perfettamente quello che è il compito della letteratura di ogni tempo: toccare quelle corde che sono uguali in ogni uomo. Anche 500 anni dopo.
Fonti
Ludovico Ariosto, “Orlando Furioso”, canto XXXIV, 75
Appunti del corso di Letteratura italiana I anno 2016/2017 del docente Emilio Russo, corso di laurea in Lettere moderne, facoltà di Lettere e Filosofia “La Sapienza”, Roma
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