«Son pittore anch’io»: Diderot e il dramma visivo femminile ne “La religiosa”

Appare difficile inquadrare una delle opere considerate minori di Diderot, con il quale siamo avvezzi a inchini e lodi per via del lavoro svolto verso l’Enciclopedia e i Salons, l’opera forse più nota del filosofo francese. Sarebbe altresì troppo noioso per il nostro lettore e, in ogni caso, assai gratuito fornire ogni genere di informazioni circa la stesura, la nascita, le idee e il messaggio dell’opera: non è sminuendo un romanzo attraverso dei freddi dati da manuale, anche se tradizionali, si potrebbe dire, che esso stesso susciti la libera curiosità in chi legge queste righe. La lettura deve sorgere sempre spontanea come desiderio e assoluto bisogno di novità intellettuale e giocosa: la letteratura è prima di tutto un gioco, poi un’arte.

La religiosa si potrebbe definire, per quanto riguarda la sua trama piuttosto scarna, una via crucis compiuta da una giovane donna di sedici anni, Suzanne Simonin, avviata dalla famiglia al noviziato e poi ai voti per fare in modo che la madre potesse nascondere dalla vista del secolo il frutto di una sua esperienza adulterina. Suzanne vive in tre conventi differenti nel corso della storia che, a rigor di logica, dovrebbe durare all’incirca quattro anni, ma che secondo le carte ne dura più di dieci. A soli vent’anni, riuscendo finalmente a uscire dall’ultimo convento in cui era stata intrappolata per via della sua condizione mai voluta dalla sua volontà, si conclude il romanzo: il finale assai scarno rivela che la giovane priva di un’identità, di un cognome, di una dote e di ogni altra cosa che renda tale un essere umano si ritrova a fare la lavandaia presso una famiglia nella Francia del XVIII secolo, vivendo col costante timore di essere scoperta a causa delle sue pratiche spontanee che potrebbero rivelare il suo passato da monaca. I suoi ripetuti Ave alle persone che incontra e il suo farsi il segno della croce non appena le campane della chiesa del paese snocciolano il loro suono sono gli ultimi gesti che la ragazza compie nel romanzo: non si può dunque dire che Suzanne sia scappata da una realtà, poiché ella la porta con e dentro di sé, come un passato indelebile che non si può cancellare neanche cambiando luogo e ambiente in cui si vive.

Diderot aveva iniziato il romanzo per una sorta di gioco e burla nel lontano 1760, non sospettando che avrebbe invece trovato piena e florida forma nel 1780 e che negli anni successivi sarebbe stato pubblicato a puntate. Non avrebbe nemmeno immaginato che il romanzo avrebbe poi trovato una dignitosa pubblicazione, ora non più a puntate, in volume unico nel 1796, dunque postumo. Già nella primissima elaborazione di quello che da lettera si sarebbe trasformato in romanzo Diderot non seppe bene specificare a quale genere dovesse essere attribuita la sua opera: chiamata prima mémoires, histoire, roman e poi conte, essa dimostrava sin da subito una natura ambigua e vaga, difficilmente definibile.

Avendo tratto spunto dal lodato Richardson, Diderot aveva creato una figura che effettivamente rispecchiava la realtà, in quanto ciò che è raccontato nel “romanzo” riprendeva un caso realmente accaduto in Francia. Ciò che Diderot fece coscientemente e non senza una certa arte fu il trasformare la faccenda in un’opera che ha tutta l’aria di entrare nel genere del romanzo epistolare, scostandosi tuttavia dai normali romanzi di tal fatta in quanto rientrano continuamente elementi non connessi a suddetti romanzi: non si parla di amore, non si è in un ambiente secolare, non ci sono relazioni in cui il personaggio è attivo. Suzanne è completamente passiva e lascia, una volta entrata in convento contro la sua volontà, che il tempo e gli eventi si snodino su di lei implacabilmente e senza opporre resistenza.

Non c’è, altra cosa importante, lo sguardo benevolo dell’autore: anche se parlare della differenza fra narratore e autore appare del tutto anacronistico per quanto riguarda questa opera, possiamo però dire che Diderot non mette in bocca a Suzanne parole che lei stessa non pensa. Quando Suzanne prende parola essa esprime tutto secondo il proprio punto di vista a partire dai suoi occhi innocenti e poco sapienti del mondo che la circonda; a tratti il suo atteggiamento pare sconveniente o almeno un po’ troppo ingenuo per essere quello di una persona autentica. Non bisogna per questo commettere l’errore di giudicare il romanzo come uno dei primi esempi di realismo narrativo: Suzanne non è un personaggio reale anche se la storia cui essa si ispira è realmente accaduta e non sono veri gli altri personaggi. Il lettore di oggi è sempre troppo portato a domandare se ciò che legge sia attinente alla verità o alla menzogna: il romanzo in questione al contrario presuppone una capacità del lettore di leggere al di là delle righe e di ciò che è narrato nei vari episodi che compongono la storia. Suzanne non è così distante dalla Pamela di Richardson, anche se la virtù della giovane monaca non è quasi presa in considerazione.

Parlando invece degli interventi dell’autore, essi sono comunque rari e ben calcolati e trovano anzi maggiore sfogo attraverso altri personaggi di ambito religioso, solitamente maschili, che evidenziano così un’altra natura del romanzo: quello di essere, prima di tutto, a detta di Diderot, “la più feroce satira dei conventi”. Diderot mette in scena, come fosse una commedia con tratti di tragedia, la malattia e la perversione che regnano negli ambienti ecclesiastici del suo tempo, in cui volenti o nolenti erano condannate a passare le proprie vite molte giovani donne – non ultima una sorella dell’autore stesso, entrata in un convento per sua volontà ma stroncata a causa della follia che le procurò l’ambiente. Diderot, da buon illuminista, doveva ben avere a cuore l’argomento riguardante le istituzioni ecclesiastiche, che in più punti del romanzo descrive in toni aspri ma assai sentiti: le vite di povere innocenti passate loro malgrado in un ambiente buio, privo di spiragli verso il mondo esterno, dimostrano una condizione che è per natura nociva all’essere umano in quanto tale e l’uomo, essendo privato della sua vera natura, ossia quella sociale (come già aveva scritto Aristotele), sviluppa in cattività pulsioni malate, desideri deviati, invidie e malignità. Due sono le uniche conseguenze: o l’innocenza cieca o la malvagità perpetrata sulle sventurate che condividono la medesima acre condizione.

Pare ovvio che un testo del genere avrebbe incontrato più e più volte le abili mani della censura, eppure questo non è il solo fatto che scandalizzò il pubblico contemporaneo: esiste nel romanzo anche una fortissima componente erotica che si gioca tutta sul ruolo della visione con protagonista il corpo femminile. Suzanne non conosce l’amore, non conosce il sesso, non conosce nemmeno le pulsioni dei sensi e ogni suo sentimento è mortificato per far sì che nel suo animo trovi spazio solo l’amore per Cristo e per la musica, come dimostrano la sua capacità di stare al cembalo e la conoscenza di autori quali Rameau. I corpi delle monache esprimono una sessualità nata mutilata, che comunica attraverso i gesti e non attraverso le parole. Il corpo di Suzanne, ora martoriato dalle innumerevoli torture afflitte dalle monache del secondo convento, ora reso oggetto delle pulsioni omosessuali dell’ultima badessa, è il vero centro dell’opera: si direbbe che Diderot opera con una precisione quasi medica sulle membra della protagonista. La descrizione delle ferite, l’indugiare dell’autore sui capelli, sull’aspetto, sulle labbra e le braccia candide di Suzanne e, non da ultimo, sull’esposizione del suo corpo anche se coperto dal velo ha dato, secondo molti, una sfumatura libertina al romanzo. Effettivamente nella seconda parte dell’opera, ossia quella che consiste nelle torture inflitte alla povera protagonista, si nota una certa non usuale insistenza sul sangue e sul candore della pelle della giovane, sulla sua magrezza e sui brividi di freddo che ella sente, sulle punizioni corporali e sulla fisica sensazione dell’approssimarsi della morte.

Diderot pare comprendere che per coinvolgere al meglio il lettore sia necessario renderlo soprattutto spettatore di ciò che la sua fantasia impera ma che i costumi e il pudore fanno tacere: il gusto e l’interesse per la violenza, il sesso, il sadismo, la follia. L’immagine che perseguiterà Suzanne per tutti gli anni passati in convento è quella di una monaca divenuta pazza, in quanto in ella aveva già previsto la sua condizione psicologica futura; e ancora un’immagine le pende dal cuore letteralmente e non, ossia un medaglione che ella porta sempre al collo dove appare in un ritratto la prima badessa che ha incontrato nel suo cammino spirituale non voluto.

Il dominio in cui opera il romanzo è dunque quello dell’immagine, se per immagine si intende un’immagine esposta agli occhi di un pubblico che vuole e deve vedere, e nella forma ora di scena teatrale ora di tableau, di quadro esposto in una galleria. Le scene che si susseguono e che formano la struttura narrativa del romanzo possono essere considerate come delle opere d’arte figurativa esposte in serie, come appunto accade spesso con le raffigurazioni della via crucis. L’ambiente barocco, in senso figurativo e temporale, in cui la vicenda si svolge ne è un ingrediente fondamentale, esattamente come la tendenza tipica della religione cristiana a dare raffigurazione a ciò che si narra nelle Scritture. La parola di Diderot porta in sé una potenza visiva, una funzione di visualizzazione che accompagna il lettore trasformato in spettatore passivo e coinvolto emozionalmente nella vicenda: in un momento storico in cui sia la pittura (specie per quanto riguarda alcuni generi, prima su tutti la grande pittura storica) sia il teatro versavano in un clima di crisi, come tutti i generi nobili e alti, si attua un racconto che si nutre della descrizione per immagini.

Tutto è fornito, come già detto sopra, dal racconto di Suzanne, le cui parole creano un’oscillazione tra distanza e identificazione con il lettore: egli è coinvolto nella vicenda, sente le passioni e il pathos, compatisce la ragazza (nel senso greco del termine), in qualche modo è portato a identificarsi con essa e con un regime fatto di discrezione obbligata e di repressione di una natura sana che dovrebbe essere libera di mostrarsi, ma allo stesso tempo percepisce di essere lontano dal suo modo di sentire e di vivere. Lo sguardo del lettore è un punto di vista esterno che si scontra talvolta violentemente con il punto di vista tutto interno di Suzanne: il che equivale a dire che il lettore conosce il mondo esterno al romanzo e il mondo al suo interno, mentre la sventurata monaca non può far altro che venire a conoscenza di ciò che la circonda. Il conflitto fra esterno, inteso anche come mondo esterno, e interno, inteso anche come spazio interno in cui si svolge tutta la vicenda, è esteso e reso con grande precisione. Resta comunque il fatto che l’occhio di Suzanne non si può posare sul lettore, mentre al contrario quest’ultimo si muove in una condizione di superiorità visiva: egli guarda Suzanne durante ogni azione che essa compie.

Sarebbe da stolti pensare che il suo non sia un nome parlante: Suzanne, col suo nome, richiama assai la figura dell’eroina dell’Antico Testamento esposta ai languidi sguardi altrui. In questo senso Diderot cancella l’alone di sacro che la vicenda potrebbe suggerire: non v’è nulla di religioso, nulla di sentito, nulla di dottrinale. Il piano dell’immagine scalza completamente quello della devozione interna, proiettando ogni cosa, dalla violenza alla parola alla perversione, alla dimensione figurativa e gestuale, possibilmente patetica. Il corpo di Suzanne è descritto come il corpo martoriato di Cristo alla colonna, con l’unica differenza che si tratta, nel romanzo, di una protagonista e non di un uomo, che si parla di una donna e non di un dio. L’innocenza e il ribaltamento dei ruoli suggerisce l’atroce parodia che Diderot compie degli ambienti religiosi, intendendo pure le vicende che si svolgono in essi e ciò che si crede al loro interno.

La ragione viene soppiantata dalla visione onirica, che spesso pare quasi sfociare nell’irreale e nell’allucinazione, nell’inconsistente e nelle immagini che ora si sfaldano e ora perdono colore: i contorni di Suzanne sono indefiniti e informi, assenti esattamente come del tutto assente è la sua identità: si è spesso tentati di considerare Suzanne non come un valore, una virtù, o almeno come un topos (certamente non un personaggio in senso del realismo letterario) ma come un fantasma che può solo subire senza iniziativa.

 

Fonti

Testo:

  1. Denis Diderot, La religiosa, a cura e traduzione di Susanna Spero, Marsilio, Padova 2002
  2. M. Bertolini, Tra verità e finzione: “La Religieuse” di Diderot e l’arte della mistificazione, in Biblioteca del XVIII secolo, 32, Roma 2017
  3. M. Bertolini, La parola vista. Strategie visuali e sceniche ne “La Religieuse” di Diderot, in I castelli di Yale, III, 2, 2015

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