Foxtrot, una danza semplice e ripetitiva diventa nell’omonimo film di Samuel Maoz – autore di Lebanon, per cui vinse il Leone d’oro a Venezia nel 2009 – la più perfetta metafora per una vita assurda, dominata dalla violenza inflitta generazione dopo generazione. Foxtrot diventa una solida accusa contro Israele, paese natio del regista, e per il quale egli stesso ha combattuto.
Il film è infatti la storia di Yonaton, un ragazzo giovanissimo di appena vent’anni che, come di consuetudine tra i giovani israeliani, sta prestando servizio militare. Un giorno però arriva la notizia che ogni genitore teme di ricevere: Yonaton è morto, ma alla famiglia non è dato di vederlo. Incomincia così la tragedia di una famiglia che impariamo a conoscere tramite il loro modo di affrontare il lutto, soprattutto la modalità così stoica del capofamiglia, Micheal, un architetto di successo che però nasconde un terribile segreto che lo tormenta.
La tragedia però costituisce solo il primo atto di una narrazione molto più complessa, che riesce a denunciare la crudeltà di un Paese, non solo mostrando attivamente la sofferenza che esso infligge, ma facendo anche ridere con uno humour spesso molto dark. Nel secondo atto infatti scopriamo com’è la vita di Yonaton in servizio, e scopriamo che essa è tutto fuorché gloriosa: lo spettatore ride per la prima volta dopo quasi mezz’ora di pellicola quando al check point in mezzo al deserto in cui è bloccato Yonatondi passa un cammello, animale che nel finale si rivelerà fondamentale. Quell’elemento di normalità e routine inserito nella narrazione, che finalmente ci ha fatto ridere, ci lascerà poi con l’amaro in bocca alla fine del film. Ma Maoz gioca proprio con questo.
Il secondo atto si mostra nella sua totale paradossalità, sfruttando spesso immagini bellissime, quasi artificiose, ed una colonna sonora sovrastante per sottolineare come lo stato in cui vivono quei quattro ragazzi sia anch’esso paradossale. Nessuno ha spiegato loro per quale motivo siano lì, nessuno ha spiegato loro per quale motivo siano dietro ad una mitragliatrice, tanto che quest’ultima può tranquillamente trasformarsi nella compagna di ballo perfetta per ballare proprio il foxtrot. I ragazzi ballano con la violenza, con la morte, e lo fanno con leggerezza, finchè tutto questo non determina in loro un profondo cambiamento.
Il terzo ed ultimo atto approfondisce esattamente le profonde tracce che un servizio militare come quello israeliano possa lasciare non solo in un individuo, ma in intere generazioni. Scopriamo cosa davvero sia successo a Yonaton, come un evento in particolare l’abbia segnato; soprattutto scopriamo cos’ha vissuto Michael, sempre nell’esercito. Non ridiamo più quando il capofamiglia racconta in lacrime alla moglie cosa sia successo quel fatidico giorno in servizio militare. Non ridiamo più quando paragona la sua vita al foxtrot stesso, per cui si pensa che ci si stia muovendo, quando in realtà si ritorna sempre allo stesso punto.
Con il terzo atto Maoz porta a termine la sua riflessione e profonda accusa nei confronti di Israele, mostrandoci come il Paese stia giocando con le vite dei suoi cittadini, con le loro emozioni. Ma il pregio di Foxtrot non è solo quello di mostrarci la crudeltà del sistema, ma di farlo riuscendo ad arricchirlo con una profonda vitalità e bellezza, che se da un lato fa respirare il dramma, allo stesso tempo lo sottolinea.
Non sembra un caso dunque che un film così complesso abbia vinto il Leone d’argento, Gran Premio della Giuria all’edizione di quest’anno del Festival di Venezia, e che agli Ophir (l’equivalente israeliano degli Oscar) abbia fatto il pieno di nomination. Quello di Maoz è infatti un film complesso, intenso e profondamente bello, che riesce a farci riflettere esplorando tutte le emozioni umane.
Si capisce perché il governo israeliano non sia felice del successo che sta avendo. E chissà come reagirebbe se magari il film di Maoz, che è stato scelto per rappresentare il paese alla 90esima edizione degli Academy Awards, riuscisse anche ad aggiudicarsi l’Oscar americano.
Credits:
- immagini © Bord Cadre Films, Filmcoopi Zürich, Sony Pictures Classics (2017)