1506: Papa Giulio II commissiona a Michelangelo una statua di bronzo che lo rappresenti. L’artista accetta e comincia a lavorarci, ma con le dovute precauzioni e soprattutto con le dovute premesse. Informa il Papa che avrebbe avuto bisogno di mille ducati e mette le mani avanti dicendo che <<non era mia arte e non mi volevo obrigare>>.
Michelangelo era ed è tuttora considerato per antonomasia il genio assoluto, quello che non ammette eccezioni. Dalla sua infanzia presso la bottega del Ghirlandaio, alla corte medicea a quella papale, tutto quello che toccava si trasformava in oro. Nonostante questo, però, per tutta la sua esistenza fu sempre intransigente riguardo la propria indole e le proprie inclinazioni: il bronzo <<non era mia arte>>, esattamente come non lo sarà la pittura quando arriverà il momento di dover affrescare la Cappella Sistina. Michelangelo si considerava uno scultore e il suo materiale, la sua arte, era il marmo. Ma nel Cinquecento un genio senza mecenati non può fiorire. E un genio che non accetta committenze rischia di ripiegarsi su sé stesso e non ottenere quello che ogni genio dovrebbe, di diritto, avere: la fama, la memoria, la gloria presso i posteri. <<Non era mia arte>>, disse Michelangelo. E aveva ragione. Il carteggio con il fratello Buonarroto e il padre Lodovico ci informa che l’artista abbia realmente avuto dei problemi nella realizzazione della statua, sia a causa degli aiutanti, rispediti immediatamente a Firenze perché inesperti -Lapo d’Antonio e Ludovico di Gugliemo del Buono- e sia per la fusione del bronzo.
Questi in breve i fatti. Nel gennaio 1507 Michelangelo manda una lettera al fratello Buonarroto in cui racconta della recente visita del Papa e di come questi avesse <<dimostrato di contentarsi di quel che fo>>. Insomma, il Papa era contento del lavoro svolto fino ad allora dall’artista. Ad aprile la <<figura di cera>> era finita. In quel periodo, infatti, l’artista scrive una lettera in cui dice che la settimana dopo avrebbe iniziato la realizzazione della parte superiore e che in venti o venticinque giorni avrebbe terminato il lavoro. Da qui iniziano, però, i citati problemi con la fusione. Innanzitutto, Michelangelo si rende conto di aver bisogno di un aiutante. Per questo chiama Bernardino d’Antonio dal Ponte di Milano, dal 1504 al 1512 alle dipendenze della Repubblica di Firenze come maestro d’artiglieria il quale, però, non ottiene il permesso di andare a Bologna fino al 15 maggio e vi arriva solo il 26.Michelangelo nel frattempo si rivolge a un “francioso” rimasto anonimo,perché non può più aspettare. Il risultato è un fiasco: anche con l’arrivo di Bernardino, Michelangelo non riesce a fondere il bronzo. Il 6 luglio 1507, il Buonarroti manda una lettera al fratello in cui spiega, tecnicamente, i motivi della malriuscita dell’opera: <<[…] maestro Bernardino, o per ignoranza o per disgrazia, non à ben fonduto la materia. […] la mia figura è venuta insino alla cintola; el resto della materia, cioè mezzo il metallo, s’è restato nel forno, che non era fonduto>>. I problemi, insomma, riguardavano la gittata: la figura era venuta solo per metà. Nonostante questo, però, Michelangelo vuole portare a termine l’opera. Nella stessa lettera, infatti, dice che <<[…]mi bisogna far disfare il forno, e così fo, e farollo rifare ancora di questa settimana; di quest’altra rigitterò di sopra, e finirò d’empiere la forma, e credo che la cosa, del male, anderà assai bene, ma non sanza grandissima passione e fatica e spesa>>. Le previsioni di Michelangelo erano giuste, le cose andranno esattamente così. L’unico sollievo di fronte a una tale delusione, infatti, sarà la rifinitura: <<La figura mia, quante più l’ò scoperta, ò trovato che meglio è venuta, e veggo che e’ fia manco male che io non estimavo, e parmi averne una buona derrata rispetto di quello che poteva avenire; però abiàno da ringraziare Idio>>. La lungimiranza di Michelangelo, però, riguarda non solo la buona riuscita dell’opera, ma anche le fatiche e le spese a cui si era riferito. Scrive infatti di aver lavorato <<con grandissimo disagio e con fatiche istreme>>, penando tanto che <<non crederrei che la vita mi bastassi>>.
Anche per la collocazione della statua Michelangelo ha delle difficoltà. Ne parla al fratello Buonarroto in una lettera del 18 novembre 1508 in cui dice che il Papa non gli aveva dato il permesso di rientrare a Firenze prima che l’opera non fosse esposta, ma dal momento che i responsabili indugiavano e la statua non veniva collocata al suo posto, che avrebbe aspettato ancora una settimana e poi sarebbe tornato. Il 21 novembre 1508 l’opera viene esposta sulla facciata di San Petronio, come ci informano i documenti ufficiali.
Riportiamo qui di seguito un episodio tratto dalla Vita di Vasari e ripreso anche da Condivi. Ci allontaneremo solo per un attimo dal binomio artista-committente per concentrarci su un aspetto che ci preme molto sottolineare, a noi come al Vasari: l’indole instabile, il carattere irascibile di Michelangelo. Questo il <<prezzo della gloria, il peso che stava sull’altro piatto della bilancia>>, dirà Bruno Nardini a proposito della solitudine quasi ossessiva in cui il Buonarroti dipingerà la volta della Cappella Sistina. Ci torneremo tra poco, per adesso estrapoliamo questa frase dal contesto citato e applichiamola al suo carattere complesso, impossibile. Lavorando alla statua in bronzo di Giulio II Michelangelo aveva attirato l’attenzione di Francesco Francia, orafo, scultore, pittore, considerato il più grande tra i bolognesi. Il quale decide di andare a vedere il lavoro dell’artista fiorentino: ne aveva sentito parlare e voleva constatare con i suoi occhi se quanto si diceva in giro fosse vero. Naturalmente, di fronte all’<<artificio di Michelangelo, stupì>>. È difficile che un artista –specialmente in pieno Cinquecento-, sprecasse molte parole su un’opera di qualcun altro. Esisteva, forse, una specie di regola non scritta secondo cui si dovesse pensare al proprio: un tacito tutti contro tutti. Vero. Ma, forse, più semplicemente, in questa situazione Francesco Francia non aveva pensato di avere a che fare con Michelangelo, genio tormentato, ossessivo. O, forse, semplicemente non aveva trovato la statua in bronzo così sensazionale. L’aveva detto anche Michelangelo: <<non era mia arte>>. Non c’era da stupirsi, insomma. In ogni caso, Francesco Francia dice che è <<un bellissimo getto et una bella materia>>, senza soffermarsi troppo sulla tecnica o su lodi smisurate nei confronti dell’artista. Basta questo per infiammare l’ira di Michelangelo, così permaloso, orgoglioso, presuntuoso ma allo stesso tempo così insicuro, così bisognoso di certezze. <<Un bellissimo getto et una bella materia>>: non c’è traccia di lodi all’artista, ma solo al materiale. Ma il genio di Michelangelo ha bisogno di lodi, si nutre di lodi e vive di esse: è l’unico scopo che si prefigge per la sua intera esistenza e anche –soprattutto- per quello che verrà dopo. Michelangelo definisce Francesco Francia un “goffo”. E quando incontra suo figlio, un ragazzo giovane e bello, gli dice che suo padre faceva <<più belle figure vive che dipinte>>.
In ogni caso, nel novembre del 1508 la statua di bronzo è terminata. Manca solo un particolare da inserire nella mano sinistra. Michelangelo chiama il Papa per chiedergli se andasse bene un libro, il Papa rifiuta: <<che libro? Una spada, ch’io per me non so lettere>>. Particolare che non viene attuato: i contemporanei testimoniano che Giulio II avesse nella mano sinistra una chiave, e non una spada.
La statua ha vita breve. Quando arrivano i Bentivoglio a Bologna, famiglia in conflitto con il Papa, viene distrutta. Lo racconta già Vasari con toni più pacati rispetto a quelli di Condivi, il quale scrive che <<questa statua poi, rientrando i Bentivogli in Bologna , fu a furia di populo gittata a terra e disfatta>>. Il bronzo rimanente viene poi venduto ad Alfonso d’Este e salvata solo la testa.
Per noi la statua di Giulio II è totalmente perduta.