Al primo ascolto fa rimanere perplessi. Al secondo, si vuole riascoltarlo. Al terzo rapisce e trascina. Questo è l’effetto che suscita Prisoner 709, ultimo album di Michele Salvemini, alias Caparezza. Forse dire “alias” non è del tutto corretto: mai come in quest’album l’artista Caparezza si confronta con la persona Michele. I due numeri, 7 e 9, rappresentano appunto Michele (nome di sette lettere) e Caparezza (termine formato da nove lettere). È un album introspettivo, in cui un artista maturo e consapevole apre nuove porte su sé stesso al pubblico. Caparezza con Prisoner 709 prova che ha ancora molto da dire ai suoi ascoltatori.
Confrontato con il penultimo album, Museica, sono lampanti le differenze sonore e le scelte musicali. Prevalgono in questo album i bassi e l’elettronica, con un avvicinamento maggiore al rap: i suoni sono perlopiù cupi e le melodie meno orecchiabili rispetto all’album precedente. Un’altra novità sono i cori, protagonisti soprattutto dei ritornelli. I testi in compenso sono meno criptici, sebbene si colgano delle sfumature e delle sottigliezze solo dopo qualche ascolto.
Un album meritevole dalla prima all’ultima canzone, tanto che è difficile trovarne alcune che spiccano. Ti fa stare bene è forse il brano più orecchiabile dell’album, ma il suo significato è profondo: nei momenti di sconforto, bisognerebbe tornare a rallegrarsi come fanno i bambini. Da qui la scelta di un coro di bambini nel ritornello e il riferimento allo Zecchino d’Oro. Con Larsen, Caparezza affronta un problema che lo attanaglia da un paio d’anni, ossia l’acufene. Inutile dire che la presenza continua di un fischio nelle orecchie ha delle conseguenze gravi su un musicista. Infine, quella che per me è la canzone migliore dell’album, se non la migliore in assoluto di Caparezza: Una chiave. Un Caparezza adulto parla con un Michele ragazzo, timido, scoraggiato, quindi un po’ a tutti coloro che non si sentono mai all’altezza.
Dopo Museica, solo un artista come Caparezza avrebbe potuto sfornare un disco migliore. Ci è riuscito. Un suggerimento: non ascoltatelo per tirarvi su di morale, non lo farà. Ascoltatelo in un momento di concentrazione, perché merita un ascolto attento e tanti altri ascolti dopo il primo.
(Valentina Camera)
Caparezza torna in studio e realizza il suo settimo album, Prisoner 709. E’ un lavoro complesso, ricco di sfumature e caratterizzato da una profonda interiorità e segna il ritorno di Michele Salvemini, in arte Caparezza, nel mondo della grande musica, grazie ad una serie di importanti collaborazioni. John De Leo, DMC e Max Gazzè hanno fornito un’importante base da cui partire per poter realizzare un prodotto musicale riuscito e completo.
L’atmosfera del disco sembra segnata inevitabilmente da una forte influenza rock, con decise sonorità ritmiche. Ma l’elemento centrale è la crisi interiore che Caparezza ha dovuto affrontare per arrivare alla conclusione di questo percorso.
“Prisoner 709 è un album sulla mia prigionia. E’ un percorso di autoanalisi che parte da una situazione di disagio per arrivare alla fine alla sua accettazione”.
L’esordio è affidato a Prosopagnosia, con John de Leo. Il sound ritmico, martellante, ci immerge in un’atmosfera molto particolare. L’autore tratta un tema molto sensibile: la prosopagnosia, un deficit congenito del sistema nervoso che impedisce a chi ne soffre di riconoscere i tratti dei volti delle persone (“Non mi riconosco più, prosopagnosia”).
La title track Prisoner 709 è una delle canzoni più riuscite del rapper pugliese. Lui stesso ha spiegato il significato della sigla: i due numeri indicano le lettere di Michele (7) e di Caparezza (9), ovvero le due identità del cantante. Il numero 0 rappresenta l’oscillazione continua tra il 7 e il 9, oltre ad essere un riferimento esplicito alla forma circolare di un LP. Merita senza dubbio un ascolto ripetuto e prolungato.
La caduta di Atlante è uno di quei brani che potrebbero non piacere al grande pubblico, ma che permette di comprendere l’ampio bagaglio culturale del cantante. In un mondo musicale come quello del rap, ritenuto commerciale e poco attento alla profondità culturale, la canzone di Caparezza crea un mondo affascinante con una serie di personaggi molto particolari, da Giove a Dike, la dea greca della Giustizia, da Giunone ad Atlante. Per pochi.
Forever Jung e Confusianesimo rappresentano due interpretazioni di argomenti molto simili. Nella prima, la psicologia e l’interiorità sono protagoniste, grazie anche ad un sapiente uso dei giochi di parole (Ti liberi se parli il rap | E non puoi dire il contrario tanto è “Parli il rap”), mentre in Confusianesimo il rapper molfettese dà luogo ad un’analisi approfondita sulla religione e sulle sue dinamiche introspettive, cadenzata dalla strofa ripetuta “Rabbi, Papa, Allah, Lama, Imam, Bibbia, Dharma, Sura, Torah, Pane, Vino, Kosher, Halal, Yom Kippur, Quaresima, Ramadan“.
Ironia e satira si intrecciano in Il testo che avrei voluto scrivere, caratterizzata da una sonorità forte che si distacca in un certo senso dai canoni del rap, mentre Una chiave è una canzone bellissima, scritta per sollevare il morale di chi non ritiene di avere “la chiave” per risolvere determinate situazioni.
Ti fa stare bene attira per il ritmo forte e cadenzato, mentre in Larsen Caparezza rivela uno dei problemi che lo ha costretto ad allontanarsi dalle scene per qualche tempo: l’acufene, ovvero una malattia che colpisce l’apparato auricolare e che si manifesta con un fischio continuo (Ogni giorno come fossi di ritorno da uno show degli AC/DC | Larsen, | fischiava per la mia tensione un po’ come si fa con i taxi). E poi ancora: “Fischia l’orecchio infuria l’acufene. | Nella testa vuvuzela mica l’ukulele“.
La seconda parte del disco sembra essere meno dinamica e interessante rispetto alle tracce iniziale e l’album si conclude con Prosopagno sia!: attraverso un gioco di parole si inserisce una citazione del brano d’apertura, in modo tale da costituire una sorta di circolo chiuso e concludere il disco in maniera uniforme.
(Guglielmo Motta)
Credits: Caparezza