Ai milanesi sarà senz’altro ben nota Vigevano. A metà strada tra il capoluogo lombardo e Pavia, è una tranquilla cittadina di provincia che può vantare nel suo centro la rinascimentale piazza Ducale, vero apogeo della vita sociale. Quello che forse non tutti sanno è che Vigevano è stato lo scenario, o forse il vero protagonista, dell’opera di uno scrittore tra i più interessanti del Novecento italiano: Lucio Mastronardi.
Dal carattere instabile e difficile, Mastronardi nasce e cresce a Vigevano. Dopo un travagliato percorso scolastico, non senza un complicato rapporto col padre, inizia la carriera di insegnante. Lontano da qualsiasi centro culturale ma interessato alla letteratura, Mastronardi si fa conoscere nel ’56, quando scrive una lettera a Vittorini. Tre anni più tardi, nel ’59, sul “Menabò” compare Il calzolaio di Vigevano. Da allora si intensificano i contatti con l’Einaudi e, soprattutto, con Calvino. Mastronardi avrà sempre bisogno di una guida, sia editoriale che artistica, in grado di indicargli la via e di mettere ordine all’interno della sua cultura confusa.
Nel ’62 Einaudi pubblica in volume Il calzolaio insieme al Maestro di Vigevano forse il suo lavoro meglio riuscito. Non a caso ne verrà tratto un film con Alberto Sordi, episodio questo che lascerà il segno in Mastronardi. Nel ’64 viene pubblicato l’ultimo tassello della trilogia di Vigevano, ovvero Il meridionale di Vigevano. La seconda metà degli anni Sessanta è, per Mastronardi, periodo difficile. Il carattere irascibile ne ostacola la professione di insegnante e, sul versante letterario, s’impone l’approccio a nuove vie, più sperimentali. La crisi artistica che ne consegue causerà la rottura del rapporto con Einaudi e l’approdo alla Rizzoli. Con la casa editrice milanese pubblica, nel ’71, il suo ultimo romanzo, A casa tua ridono, e nel ’75 il volume di racconti L’assicuratore.
Negli anni ’70 inizia l’incubo. Una lite violenta con un direttore scolastico gli costa un periodo di reclusione che ne peggiorerà l’equilibrio mentale già instabile. Segue un periodo di relativa, ma illusoria, tranquillità, in seguito al matrimonio con una collega. Nel ’74, però, tenta il suicidio. Anche la salute è precaria e infatti nel ’78 gli viene diagnosticata una neoplasia polmonare che lo getterà nello sconforto. Il 24 aprile del ’79 si allontana di casa e non vi farà più ritorno: il suo corpo verrà ritrovato sulla sponda del Ticino. Pochi mesi prima aveva annunciato alla Rizzoli la conclusione dell’ultimo romanzo, di cui non verrà trovato nessun manoscritto.
Se Mastronardi divenne un caso è a causa di varie ragioni, a partire dalla singolare personalità per arrivare al particolare contesto storico, culturale e geografico. Siamo ormai lontani dal Neorealismo, la società descritta da Mastronardi è quella della piccola borghesia che si affaccia al boom economico. Vigevano, in questo senso, è esemplare. In quegli anni infatti la cittadina viveva un forte aggiornamento industriale che la porteranno ad essere un importante centro manifatturiero soprattutto per quanto riguarda le calzature. Nel Maestro, infatti, il protagonista abbandona la sua professione di insegnante per aprire una fabbrichetta di scarpe, con esisti drammatici.
Vera protagonista della trilogia è quindi la piccola borghesia con i suoi desideri e frustrazioni ma, in generale, ciò che viene indagato dall’occhio allucinato di Mastronardi è la meschinità della vita di provincia. La sua non è semplicemente una deformazione ironica e macchiettistica, con intenti riformatori ma, anzi, domina un disagio apocalittico. La narrazione finisce col perdere ogni realismo a vantaggio di un’onirica inquietudine. La maestosa piazza Ducale, calma e assonnata, diviene improvvisamente caotica e si allungano le ombre, quasi dechirichiane, degli inferi.
Quello di Mastronardi è un autobiografismo obliquo. Impossibile non tener conto di quella Vigevano in cui visse e morì. I protagonisti dei suoi racconti sono accomunati dalle lunghe passeggiate deliranti, e non può non venire in mente un macabro parallelismo con le circostanze della sua morte. Ma bisogna sempre essere cauti nel ridurre autore e personaggio in un unico essere. Quelle di Mastronardi non sono auto confessioni. Così scriveva nella sua prima lettera a Vittorini: “Scrittori si nasce, ma bisogna anche diventarlo, dicono…”. Sempre nella stessa lettera, Mastronardi racconta di un continuo lavoro di scrittura e lettura. C’è, nel giovane Lucio, un fremente desiderio di trovare una forma adeguata e una disperata ricerca. L’inquietudine, però, è in agguato dietro l’angolo e, a volte, la letteratura non può sperare di sconfiggerla.
Fonti: G. Tesio, Introduzione a Il maestro di Vigevano, Einaudi, 1994.