I miti, “così pieni di significato e così privi di una spiegazione” – come diceva il grande poeta tedesco Goethe – sono da sempre patrimonio stimolante per nuove rappresentazioni da parte di poeti e artisti, tant’è che la loro rivisitazione potrebbe essere definita tradizione culturale. Se, infatti, il XX secolo è un’età caratterizzata dal cambiamento e dal distacco dal passato, è anche vero che vi è una ricerca al rinnovamento e al recupero dei temi classici.
Mentre dal punto di vista letterario i romanzi/racconti di questo periodo – fra cui i più conosciuti sono l’Ulisse di Joyce, Il Minotauro di Borges e l’Antigone di Brecht – sono caratterizzati dall’analisi psicologica dei personaggi e dalle riflessioni morali, in ambito artistico l’uso del mito è molto diversificato: rappresentato come regno del fantastico, come insieme di metafore, come ornamento, come parodia o come propaganda, esso viene sempre riutilizzato con la consapevolezza del distacco religioso e della lontananza storica che lo caratterizzano.
Nell’opera Orfeo del pittore, scultore e illustratore John Macallan Swan, in un intreccio fra realismo – animali e vegetazione – e fantasia – clima idilliaco e bellezza androgina del protagonista – il mito del Cantore diventa il pretesto per celebrare la bellezza e la poesia.
L’aspetto magico del mito e la rinascita di quest’ultimo nel mondo contemporaneo vengono, invece, esaltate dall’illustratore statunitense Wyeth nell’opera Il gigante, in cui alcuni bambini sulla spiaggia assistono alla straordinaria visione di un gigante che sembra essere parte stessa della natura; quasi a simboleggiare che il mito sia, da sempre e per sempre, parte integrante della vita dell’uomo, o – come pensava Pascoli – che sia il filtro attraverso cui osservare i misteri della natura con gli occhi dell’innocenza.
D’altra parte, il mito può essere completamente trasfigurato. De Chirico, per esempio, nel suo olio su tela intitolato Il ritorno di Ulisse, realizza un’aspra parodia del mito in cui l’eroe, solitario e in miniatura rispetto all’ambiente borghese in cui è dipinto, rema per tornare alla sua amata Itaca, un miraggio troppo lontano per poter essere raggiunto.
Dalì, invece, trasforma il mito di Narciso in un’unione fra tradizione classica – pose classiche e atteggiamento manierista – e modernità, ovvero la psicoanalisi. Nata da una doppia suggestione – un viaggio in Italia dove l’artista ammirò i capolavori del Rinascimento e del manierismo e la lettura delle Metamorfosi di Ovidio – le Metamorfosi di Narciso sono la prima opera in cui Dalì utilizza il metodo critico-paranoico, in cui vuole rappresentare i fenomeni causati dal delirio e dalla fantasia del suo inconscio in un’ambigua relazione tra realtà e illusione. Narciso, rappresentato con le membra staccate tra loro, sta per diventare un fiore, simbolo di perfezione e di unità del cosmo, dando così vita ad una doppia metamorfosi: da Narciso al fiore e da mito ad arte.
Un altro valore che si attribuisce al mito è quello propagandistico, carico di contenuto politico e morale: è il caso di Venere e Adone dipinto da Arthur Kampf, uno dei pittori più amati da Hitler, in cui, sullo sfondo della scena d’amore – non ricambiato – tra la dea Venere e Adone, si vuole glorificare la guerra come metodo con cui affermare la propria virilità.
Il mito, come disse Calvino “è un testo che non ha mai finito di dire quello che ha da dire” e tocca a noi reinterpretarlo, aggiungendo a queste meravigliose voci del passato un tocco di presente.
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fonti: studio da parte dell’autore
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