L’amore che mi resta (Einaudi, 2017) è l’ultimo gioiello di Michela Marzano – classe 1970, docente di Filosofia Morale presso l’Università Paris Descartes.
Il prologo offre già un avvertimento al lettore: si parla del suicidio di una ragazza (Giada) e del dolore senza fine della sua madre adottiva (Daria), non c’è un happy ending, è una storia triste. Ma chi lo dice che una storia triste non può essere altrettanto bella? E soprattutto istruttiva, come si apprende proseguendo nella lettura.
La struttura del libro è un’alternanza di momenti presenti e di flashback sul passato di Giada; inoltre, si conforma quasi come una sorta di romanzo epistolare, in quanto è tutto narrato da Daria stessa che si rivolge alla figlia in toni teneri, malinconici e struggenti – «Dimmelo tu, Giada, dove sono andate a finire le parole»
Daria è una donna un po’ bambina, eccessivamente ansiosa a detta degli altri, che ha riversato sulla figlia adottiva tutto il suo amore. Forse per colmare quel vuoto lasciato dal cattivo rapporto con la madre. È per questo che, quando Giada si suicida, la vita di Daria sembra non avere più senso; d’altronde come si fa a sopravvivere, se non a vivere, quando viene a mancare una parte così importante di sé stessi? Tale domanda viene ripetuta manifestamente e silenziosamente quasi fosse una litania, in una narrazione a ritmo lento in cui si percepisce la presunta insensatezza del tentato conforto di parenti ed amici o lo scetticismo nel partecipare ad un gruppo di supporto.
Giada sin dall’inizio è quella che si è suicidata, perché il suicidio è un atto così improvviso e fulmineo che sembra contrastare con l’immensità di motivi su cui si è meditato per un certo periodo di tempo. Cosa c’è dietro a questa decisione? La ricerca, che si protrae incessantemente per l’intero libro, offre un delineato ritratto dell’animo di Giada, un animo colmo di fragilità ed insicurezze, diviso fra l’amore che prova verso la sua famiglia adottiva e il desiderio lancinante di scoprire le proprie origini. Perché la madre naturale l’aveva abbandonata? Cosa aveva di sbagliato? Giada si portava dietro questo peso che risulta essere stato sconosciuto agli occhi di Daria, che aveva l’ingenua pretesa che l’amore che le dava fosse abbastanza. Per questo, alla morte della ragazza, lei è persuasa dall’avere sbagliato in qualcosa.
Il grande insegnamento del libro, però, è chiaro alla fine: il suicidio è suicidio e le persone sono persone. Prima di avanzare accuse, giudizi o rimproveri verso gli altri o sé stessi, bisognerebbe conoscere bene le situazioni e i soggetti coinvolti. Il che, in ogni caso, è impossibile: Daria, dopo aver capito il vuoto che, nonostante tutto, si portava dietro Giada, non si colpevolizza più per non averlo scoperto prima. Perché non avrebbe potuto fare nulla, dal momento che Giada era sì sua figlia, il suo amore primario, ma innanzitutto è una persona altra. E l’amore non è, oltre al resto, rispettare l’alterità dell’altro? Anche se fa male. La conoscenza di qualcosa dovrebbe portare all’accettazione rispettosa di essa, ed è in tal modo che si giunge veramente alla pace.
Quindi qual è l’amore che resta? Può esserci davvero un amore che resta, dopo una perdita tanto straziante? Sì. È la vita stessa che continua a scorrere, pur senza un pezzo, è ciò che in ogni caso si può dare agli altri. Sono le nuove cose che nascono, in modo diverso, ma lo stesso piene di bellezza. Perché, dopotutto, “senza amore si è morti, prima ancora di morire”.