Stavolta parliamo di tragedia.
L‘Ippolito. Due redazioni, innanzitutto: nella prima, Fedra si dichiara direttamente a Ippolito. Sembra quasi di vederla: va da lui, sconvolta, priva di qualsiasi forma di razionalità e gli confessa il suo amore. Un atto di coraggio. Il pubblico ateniese rifiuta questa versione: un atto di coraggio sì ma tracotante, eccessivo, volgare. Ecco quindi la seconda redazione, in cui viene inserito il filtro -umiliante, forse superfluo ma assolutamente necessario- della nutrice. È lei, infatti, che va da Ippolito e gli rivela l’amore che Fedra, moglie di Teseo, prova per lui.
Queste le premesse.
Un salto, adesso. Medea. Non vi racconteremo la storia, potete trovarla tra le pagine dei più grandi: da Euripide, a Seneca, a Pasolini. Medea, una donna cattiva, crudele, folle, una madre che uccide i propri figli per vendetta. Ma è realmente la vendetta, la sua? Procediamo con cautela. Se la nostra Medea è quella di cui ci parla Seneca, ebbene sì: è vendetta. Il simbolo del furor, della pazzia, l’opposto di ciò che il filosofo tentava di insegnare a Lucilio, l’antitesi dello stoicismo: un mostro. Un comodissimo esempio. E non è un caso, forse, che le tragedie non siano la parte più brillante della produzione senecana. Non è questa Medea che ci interessa, non in questa sede.
E quanto ai miei figli, chiederò che restino, non già perché io voglia lasciare ai miei nemici i miei figli in una terra ostile, esposti all’insulto, ma perché intendo uccidere con l’inganno la figlia del re. […] Ora, però, voglio porre fine a questo discorso; mi è venuto da piangere per l’entità dell’azione che poi devo compiere; ucciderò, infatti, i figli miei: non vi è alcuno che me li strapperà.
Euripide, Medea, Rizzoli, Milano 1997.
Con Euripide torniamo indietro di qualche anno, è vero. Torniamo ad Atene, un pubblico cronologicamente più vecchio ma, forse, paradossalmente, un pizzico più moderno. Non è la vendetta, la protagonista di questa tragedia. Medea uccide i figli in mancanza di alternative -terribile a dirsi-. Non può fare altro, non può sopportare di vederli uccisi dal nemico: sono suoi, e se moriranno sarà per mano sua. Il furor c’è tutto, sarebbe sciocco dire il contrario. Ma non è il furor di una donna priva di senno, non è l’antitesi dello stoicismo, è un altro discorso. È il furor di una donna sedotta, abbandonata, che ha la prospettiva di veder morire i propri figli per mano del nemico. Una donna estremamente dignitosa e, a nostro parere, davvero commovente. E Giasone? Un inetto. Perdonateci per il termine assolutamente inappropriato, ma ci è sembrato calzante. Per eventuali critiche ci appelliamo al ventunesimo secolo, dove tutto è concesso. Giasone è un personaggio assolutamente superfluo, piatto, apatico, succube. Niente a che vedere con la pietas che riempirà le pagine di Virgilio, no: non parliamo di fato. Qui, più banalmente, parliamo di stupidità. Un personaggio privo di qualsiasi spessore psicologico -elemento tanto caro a Euripide-, sostanzialmente inutile. Per niente affascinante, davvero.
È Medea la protagonista di questa tragedia, terribilmente affascinante, spaventosamente magnetica. Per il pubblico e soprattutto per l’autore. Una donna da cui Euripide è evidentemente attratto, e di cui sceglie di analizzare ogni più piccola e sottile sfaccettatura.
Vi chiediamo di saltare ancora una volta, ora. È l’ultima, promesso.
Fedra indossa un velo nero, parla con la nutrice la quale a sua volta riferirà tutto a Ippolito. Fedra si uccide, incolpa Ippolito di averla violata, Teseo manda il figlio in esilio, Ippolito viene aggredito da un mostro marino e muore. Mettete in ordine queste informazioni, rileggete un attimo queste ultime righe. Se parliamo di vittime e carnefici, non abbiamo dubbi: Fedra l’ingannatrice, la folle, il carnefice. Ippolito l’innocente, la vittima. Eppure.
Eppure, Ippolito muore. Colpito dagli dèi, dall’ira di Afrodite. La sua colpa, non averla onorata: aver disprezzato l’amore e aver amato solo la dea della caccia. Gelosia divina, un tòpos ricorrente nella cultura greca. Ma qui vorremmo andare un po’ più a fondo.
Afrodite cioè Euripide? Forse. Ossia: Ippolito viene incolpato di non aver onorato una dea, la dea dell’amore. Ma gli dèi, nella mente di Euripide, sono pretesti. Di cosa lo incolpa, realmente, l’autore? Di aver respinto Fedra, la sua eroina, quella che ha dipinto in maniera così limpida e meticolosa? Di aver rovinato la sua creatura? Probabilmente sì. Nessuna vittima e nessun carnefice. E, anche messa in questi termini, vittima e carnefice sono destinati a soccombere ugualmente sotto la penna dell’autore. Ma Fedra scompare per prima: nelle ultime pagine della tragedia non c’è traccia di lei. Viene lasciata indietro, dimenticata, forse perdonata. Alla fine rimane solo Ippolito e la sua morte lenta, dolorosa e terribile. Fedra è già lontana, all’autore non interessa infierire sulla sua fine, gli interessa più infliggere il colpo finale a un eroe privo di pathos, di carica emotiva, che eroe, a ben vedere, non è.
Ecco, questo è il salto. La conoscenza generatrice di dolore di Eschilo, la sofferenza generatrice di consapevolezza con Sofocle, uno spessore psicologico sottile e portato all’ennesima potenza con Euripide. E le donne, protagoniste indiscusse. Studiate meticolosamente, piene di colpe ma sistematicamente perdonate. Euripide subisce il fascino delle sue eroine e, alla fine, pecca di ybris. Dà la possibilità a Fedra di dichiararsi, le dona l’indipendenza assoluta: lei, da sola, contro un uomo. Ma il pubblico respinge questa variante e lui, paziente, fa un passo indietro. Consapevole che dovrà aspettare ancora qualche secolo, relega la sua donna -le sue donne- nell’universo femminile tacitamente accettato e le toglie il dono della parola, almeno in questa situazione. Nonostante questo, però, si riscatta: non è disposto ad abbandonare la sua eroina. E quindi incolpa Ippolito. Rende Giasone un inetto. Indirettamente, subdolamente, li porta a essere non solo personaggi secondari, ma anche negativi. Le ultimissime ruote del carro. Ippolito muore, Giasone risulta indifferente. La loro presenza assume valore unicamente in funzione delle eroine, da soli sarebbero inutili e incapaci di portare avanti la storia.
A ognuno le proprie colpe. Giasone e Ippolito assassinati dalla penna di Euripide. Non perdonati. Non solo morti, ma anche superflui, privi di carica emotiva. Mentre Fedra e Medea, seppure incalzate dal terribile fato, vengono disegnate per smuovere le viscere del lettore oggi, del pubblico allora. E risultano, quindi immortali.
Un bel salto in avanti. Non parliamo di emancipazione femminile, non qui. Sarebbe prematuro, superficiale e anche noioso. La nostra è solo una suggestione, un’osservazione, frutto di una bella lettura. Un sorriso amaro per un autore ancora una volta troppo indulgente nei confronti del complesso, vastissimo e magnetico universo femminile.