di Andrea Piazza
Scendendo ad ampie falcate lungo la scalinata che conduceva al molo, il signor Milevski non vide neppure le fiamme che balenavano a poca distanza da lui. Nè tanto meno si accorse dell’odore penetrante del fumo e del legno bruciato che serpeggiava lungo le strette vie della Città Bassa.
Lo preoccupavano troppe cose, troppi pensieri affollavano la sua mente. Si accorse di essere tremendamente in ritardo e affrontò l’ultima rampa delle scale di pietra grezza saltando i gradini a due a due, con una foga eccessiva persino per chi deve lottare contro il tempo.
Inciampò proprio sull’ultimo gradino, nascosto all’ombra dei ciliegi che attorniavano il passaggio; ancora umido dopo la nevicata dei giorni precedenti.
Imprecò e si rialzò pulendosi il pastrano ricoperto di foglie e terriccio. Riprese la sua marcia e raggiunse le vie che conducevano al porto, intricate come i suoi pensieri.
Attraversò due o tre incroci prima di fermarsi, ansimante. Per un attimo gli passò un pensiero per la mente, ma lo ricacciò subito in profondità.
Quando passò davanti a un enorme edificio, arroccato a ridosso del molo, sentì la brezza che trasportava l’odore salmastro così familiare.
Non fece in tempo, nel suo continuo perdersi e distrarsi, a sentire quel rumore alle sue spalle. Quando si voltò, potè opporre ben poca resistenza al Cavaliere lanciato in corsa.
La notizia si propagò molto più lentamente della rapidità con cui le fiamme divorarono la Città Bassa. Alcuni superstiti, gettatisi in mare, raccontarono poi di non essersi accorti di nulla fino a quando le fiamme non si erano propagate nelle case adiacenti alle loro. Solo allora, e per un puro caso che li aveva voluti ancora svegli nel cuore della notte, erano riusciti a fiondarsi fuori dalle loro abitazioni. “Giù al porto!”, il grido aveva percorso le poche strade ancora libere dalle fiamme. Le Guardie della Città, appostatesi ai margini delle principali diramazioni, avevano cercato di arginare le fiamme e limitare i danni.
Non ci fu nulla da opporre alla forza devastante di quell’incendio. Fu come se un Demone, improvvisamente palesatosi in quell’angolo della Terra, avesse deciso di sbeffeggiare i mortali, giocando al gatto col topo, sperimentando le sue abilità di distruttore tremendo. Nel giro di poche ore le abitazioni erano un misto di fumo e cenere. La pietra crollava e il legno si ripiegava su se stesso, in un crepitio sinistro.
La mattina dopo sui giornali si rincorrevano molteplici voci, ma nessuna notizia. Non si seppe nulla per diverso tempo. La città rimase avvolta in una nebbia spettrale, e molti abitanti della Città Alta si chiesero cosa si nascondesse nelle profondità del luogo in cui anche loro, seppur dall’alto, si capisce, abitavano. Soltanto dopo due giorni si ristabilì una certa normalità. La Città Bassa tornò ad essere visibile dall’alto, e nessuno si preoccupò di accertare cosa fosse successo in quei giorni in cui cielo e terra erano rimasti separati.
Soltanto tre giorni dopo fu rinvenuto il cadavere di Ivan Milevski. L’ispettore assicurò che si sarebbero svolte le indagini più accurate possibili, benchè naturalmente le Forze di Polizia fossero concentrate primariamente sulle cause che avevano scatenato l’incendio. Non fu subito chiaro che si trattasse di un caso di omicidio. I corpi disseminati per le strade erano così numerosi che si faticava a credere a qualcosa di diverso della semplice “morte per asfissia” o “per ustioni estese”. Eppure il corpo di Milevski non recava alcun segno della furia dell’incendio. Era invece evidentissimo, persino impossibile da ignorare, il segno di uno zoccolo sul petto, sotto al quale si nascondevano diverse costole rotte e un polmone lacerato. Era morto sul colpo. Ma quale colpo? Non era più all’ordine del giorno morire a quel modo, soprattutto nel bel mezzo di una calamità. Eppure, non si poteva negare che le cose stessero effettivamente così.
Nessuno, tuttavia, riuscì a mettere insieme questo fatto con le continue voci di apparizioni che circolavano in quei giorni.