Fino ad una decina di anni fa in Afghanistan governava il regime dei taliban. Conservatori ed estremisti, negli anni dal 1996 al 2001 hanno condannato ogni forma di attività che potesse essere ritenuta “antislamica”, e tra le maglie di tale censura era caduto anche lo sport. Gli stadi di calcio, ormai inutilizzati, vennero convertiti a luoghi adibiti per le esecuzioni pubbliche.
Proprio quei luoghi che dovrebbero invece essere terreno di unione, dove creare legami tra popoli e singole persone, cancellare ogni diversità sociale, etnica e di pensiero.
Oggi, gli impianti sportivi sono tornati alla loro funzione iniziale e il calcio è tornato ad essere uno sport praticato dai giovani, ma non solo: si sta infatti diffondendo anche tra le ragazze.
Durante il regime taliban le donne hanno vissuto anni bui, anni in cui uscire di casa da sole o addirittura andare a scuola era loro proibito. Con la caduta del regime, sono state finalmente libere di vivere una vita più autonoma e, nel caso specifico, libere di praticare attività sportiva, anche a livello agonistico.
Nel 2016 erano più di mille le atlete registrate nelle federazioni, attive in sei province del paese (Herat, Bamyan, Ghazni, Jowzjan, Balkh, e la capitale Kabul), le cui 22 squadre competono in un campionato. Inoltre, la nazionale femminile ha partecipato negli ultimi anni ad alcuni tornei internazionali, segno che qualcosa sta davvero cambiando.
In un Paese in cui un parlamentare ha affermato senza riserve che non manderebbe mai la figlia a giocare a calcio, definendola una “prassi peccaminosa“, le famiglie delle giovani si sono inizialmente dette preoccupate, spaventate dalle possibili ritorsioni che avrebbero potuto subire le proprie figlie e che ancora potrebbero verificarsi. L’ostacolo culturale e il conservatorismo, ancora strisciante tra la popolazione e tra i politici, costringe le giovani atlete a prestare la massima attenzione.
“Le nostre famiglie ci sostengono, ma ci dicono anche di fare attenzione. Noi andiamo a giocare in incognito” spiega Maryam Merzhad, della squadra di Herat
“Convochiamo gli allenamenti via sms. E ogni volta cambiamo il giorno. I taliban e gli altri islamisti radicali odiano quello che facciamo e preferiamo non esporci troppo”, racconta Najibullah Nawrozi, allenatore e capo del comitato sportivo di Herat “I taliban me l’hanno giurata. Ma io certo non mi fermo. Vedere i progressi di queste ragazze è per me fonte di enorme soddisfazione”
Gli allenamenti si svolgono prevalentemente in orari mattutini, lontani da occhi indiscreti e quando la temperata non è ancora alta. Le divise delle giocatrici sono infatti in linea con i precetti islamici, per cui nessun lembo di pelle può essere mostrato, ad eccezione di mani e viso.
Per sopperire a tale necessità, alcune aziende di prodotti sportivi stanno escogitando delle divise apposite, che comprendano leggins e hijab, tra cui Hummel, un’azienda danese, che ha studiato una maglia adatta, che permetta alle donne di giocare senza che la stoffa del velo cada loro sul viso.
Il lavoro svolto da persone come Hajra Abul Fazal, capo del Comitato delle donne in Federcalcio dell’Afghanistan, che si batte affinchè alle squadre femminili siano concessi gli strumenti idonei agli agli allenamenti, sta lentamente contribuendo a migliorare le condizioni di gioco delle ragazze afgane, e il coraggio dimostrato dalle giovani atlete, che, sfidando il pensiero comune, continuano ad allenarsi, guardando avanti senza arrendersi, potrebbe davvero diventare veicolo di un cambiamento culturale per l’intero paese.
“Siamo amanti della libertà. Lo sport è un veicolo per la libertà.”
Fonti: internazionale, linkiesta, sky