L’eroe nero nella storia della letteratura (parte quarta): in Inghilterra.

Nel 1667 John Milton, in Inghilterra, pubblica il suo poema epico in versi sciolti Paradiso Perduto. Nella sua opera il protagonista è Satana in persona, tratteggiato come un eroe sconfitto, un angelo che tentò di soverchiare il tirannico Padre convincendo un terzo degli angeli a muovere guerra contro il Paradiso, e che fallì nel tentativo. È un personaggio estremamente complesso e avvincente per la sua astuzia e la sua attività intellettuale vivace, anche se sciolta da ogni tipo di moralità. Celebre la frase “Better to reign in hell, than serve in heaven” che rende perfettamente la grandezza del personaggio, il suo eroismo, sebbene finalizzato al male. Milton stesso dichiara nel proemio di voler giustificare l’operato di Dio verso l’uomo, e condannare Satana; tuttavia, è stato detto dell’autore che senza rendersene conto si schierava dalla parte del Demonio, e il lettore stesso è portato a parteggiare per lui! Involontariamente Milton ha creato il vero primo eroe nero nel senso in cui lo intendiamo oggi. Ma questo è ancora un caso isolato.

“Chi ha prevalso sul proprio nemico soltanto con la forza, lo ha vinto soltanto a metà.”

È nel Romanticismo che, finalmente, l’eroe nero inizia a riscuotere successo. Come mai proprio in quest’epoca? Si deve tener conto del clima storico e culturale del tempo: l’800 è stato anche definito come Età delle Rivoluzioni, dai vari moti rivoluzionari del secolo in seguito soprattutto al Congresso di Vienna. È stata un’epoca in cui c’è stata una reazione all’Illuminismo e si privilegiava il lato irrazionale dell’uomo, il sentimento, il rapporto tra io e natura. Per questo motivo crebbe l’interesse verso tutto ciò che è misterioso e sconosciuto, una sorta di regno dell’ignoto che si ritrova nell’animo umano stesso.

La letteratura in questo periodo inizia a riempirsi di personaggi che la vita ha costretto a diventare malvagi e che hanno abbracciato il male con tutte le loro forze per poter sopravvivere. Nel 1847, Emily Bronte pubblicò “Cime Tempestose”, regalando al pubblico la tragedia di Heathcliff: un giovane vagabondo che, adottato dal signor Earnshaw, cresce insieme ai bambini di quest’ultimo, Catherine e Hindley. Mentre la prima instaura con lui un rapporto di grande amicizia, che si trasformerà poi in amore nella maturità, il giovane Hindley col passare degli anni accresce il suo odio verso il fratello acquisito, tanto che, alla morte del padre, lo obbliga ad abbandonare gli studi e a lavorare come servo. Questo non intacca il rapporto tra Catherine e Heathcliff, che continuano a trascorrere intere ore insieme a giocare nella brughiera, accomunati dalla stessa natura selvaggia. Tuttavia, quando Catherine è costretta a trascorrere dei mesi a casa Linton, instaura un legame con il raffinato Edgar, e al ritorno riesce a vedere in Heathcliff solo un grezzo ragazzo della servitù. La fanciulla si fidanza con Edgar due anni dopo, sebbene confessi alla sua bambinaia di amare ancora Heathcliff, ma di non poterlo sposare a causa della sua bassa estrazione sociale. Il giovane ascolta solo la parte finale della conversazione e decide di fuggire in cerca di fortuna. Al suo ritorno, Heathcliff è un nobiluomo, ma profondamente mutato nel carattere: l’unica cosa che brama è la vendetta. Quindi si stabilisce a Wuthering Heights e fa sprofondare definitivamente Hindley nell’alcolismo e nella povertà e si appropria degli averi della famiglia; imbrutisce il nipote di Catherine privandolo dell’educazione; venuto a sapere dell’infatuazione della sorella di Edgar per lui, intreccia una relazione con lei senza alcun amore, solo per poter colpire il fratello. Tra Heathcliff ed Edgar c’è un furioso litigio, in seguito al quale il secondo proibisce a Catherine ogni contatto con l’amico. Questo le causa la definitiva nevrastenia. Catherine muore di parto, ma in punto di morte riesce a confidarsi con Heathcliff e i due si dichiarano eterno amore. Questo non lo fa desistere dai suoi propositi di vendetta, anzi, continua a perpetrarla fino alla generazione successiva, sfogandosi non solo su Edgar, ma anche su sua figlia e sul figlio di sua sorella. Alla fine del romanzo Heathcliff si accorge della simpatia e del sentimento nascente tra Hareton e Cathy, rispettivamente i figli di Hindley e Edgar, ma confessa alla bambinaia di non avere nessuna intenzione né voglia di stroncarlo. Quando inizia a vedere il fantasma di Catherine per la casa, si reca al cimitero e disseppellisce il cadavere dell’amata per poterla abbracciare un’ultima volta. Muore poco dopo, prima che Hareton e Cathy si sposino.

“Tu mi amavi; che diritto avevi di lasciarmi? Che diritto? Rispondimi. […] Giacché né la miseria, né la degradazione, o la morte, né qualunque pena che Dio o Satana potessero infliggere, avrebbero potuto separarci, tu lo facesti di tua volontà. Non ho infranto il tuo cuore, tu l’hai infranto; e nell’infrangerlo, hai spezzato il mio. Tanto peggio per me che sono forte.”

Contrariamente a ciò che era stato fino ad allora, Heathcliff non è l’eroe buono e maltrattato che sopportando le sventure è destinato a riscattarsi per dei casi provvidenziali, ma un eroe buono e maltrattato che si riscatta da solo tramite la vendetta, che si fa giustizia da sé. Estremamente ombroso, introverso, abile architetto di trame malvagie, perpetua la sua vendetta finché ne ha la forza, coinvolgendo nella sua spirale di distruzione chiunque gli stia attorno. L’unica persona verso la quale nutre un affetto sincero, profondo, tanto da annientarlo è Catherine. Per il suo amore, Heathcliff si scaglia contro il raffinato e mite Edgar, che risulta in realtà ridicolo in confronto al giovane vagabondo. L’autrice costruisce la narrazione in modo da far provare simpatia per Heathcliff, rendendolo il vero eroe. In maniera del tutto nuova e anticonvenzionale, in questo romanzo l’amore tra i due non è affatto un sentimento che porta la luce, ma anzi, una passione distruttiva, oscura, in ogni modo sbagliata. Un amore talmente dannato che invece di redimere Heathcliff lo rende ancor peggiore di quanto già non sia. Il romanzo, all’epoca della pubblicazione, venne criticato aspramente anche per gli inusuali contenuti violenti. Eppure è proprio questa matrice violenta, questa distruzione, la vendetta a tutti i costi ad affascinare il lettore e a tenerlo incollato alla narrazione pagina dopo pagina.

Quarant’anni dopo apparivano sulla scena i personaggi di Stevenson (Dr. Jekyll e Mr. Hide), àncora di passaggio verso quello che sarebbe stato il romanzo dell’eroe nero per eccellenza: Il Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, del 1890. Ispirato al celebre mito di Faust, il giovane, ingenuo, bellissimo Dorian Gray viene deviato dalla frequentazione dell’amico Henry e finisce con lo stipulare un patto col diavolo affinché lui resti eternamente nel fiore degli anni, e il suo ritratto, dipinto dall’amico Basil, invecchi al suo posto. Ben presto, Dorian è costretto a nascondere il dipinto, poiché scopre che in seguito ad ogni sua bravata la figura rappresentata si imbruttisce e la tela diventa tanto più marcia quanto marcia diventa la sua anima. Dorian è un esteta, e, in quanto tale, l’unica regola della sua vita è la bellezza, gli interessa unicamente fare del proprio vissuto un’opera d’arte. E dunque si concede ogni vizio e perversione, ogni esperienza estrema, in termini fisici e psicologici.

“Solo le persone superficiali impiegano anni per liberarsi da un’emozione. Chi è padrone di sé può porre termine a una sofferenza con la stessa facilità con cui inventa un piacere. Non voglio essere in balia delle mie emozioni. Voglio servirmene, goderle e dominarle.”

Chi lo indirizza su questa strada è Henry, che tuttavia rimane solo un teorico dell’estetismo, un ipocrita, senza il coraggio di mettere in pratica ciò che egli stesso predica. Infatti, durante la lettura del romanzo Dorian non è la figura più sgradevole, anzi, risulta una specie di vittima dell’influenza negativa dell’amico e di eroe in quanto non ha alcuna paura di vivere secondo ciò in cui crede. Basil, d’altro canto, cerca di controbilanciare il male procurato da Henry e vuole preservare la bellezza interiore del ragazzo che ha conosciuto, tanto amabile quanto fragile. Questo gli costerà la vita e sarà lo stesso Dorian ad ucciderlo. In un’escalation di orrori, dalla morte dell’amata Sybil Vane, all’omicidio dell’amico Basil, Dorian decreta la sua rovina, continuando a far marcire il suo dipinto. Infine, però, Dorian si pente, e con un estremo atto di eroismo, si assume tutte le responsabilità di ciò che ha fatto: scopre il quadro ormai marcito e pugnala la tela. Il dipinto ringiovanisce, mentre lui invecchia e muore. Come mai è uno tra i personaggi più amati di tutta la letteratura? Perché ha avuto il coraggio di affrontare il peggior nemico: sé stesso. Nello scontro decisivo tra bene e male, lui sceglie la parte del bene e si redime.

Con il ‘900 e le teorie di Freud e di Jung sul Perturbante e l’Ombra, ci sarà un’ulteriore svolta, ma se ne parlerà nel prossimo articolo.

 

Fonti:

Paradiso Perduto, J. Milton, a cura di Roberto Sanesi, Arnoldo Mondadori Editore, Trento, 2014.

Cime Tempestose, E. Bronte, traduzione di De Sanctis e Gemma, Giunti Editore, 2016.

Il ritratto di Dorian Gray, traduzione di E. Grazzi, Newton Compton Editori s.r.l., Roma, 1993.

Performer Culture & Literature, vol. 2, M. Spiazzi, M. Tavella, M. Layton, Zanichelli, 2012.

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