Siamo nel 1583 e stavolta non parliamo di letteratura in senso stretto. Raccontiamo una storia sconosciuta, di nicchia, che parla di vendetta, di rivalsa, di gelosia, non di donne ma quasi: di arte.
Dunque, 1583 abbiamo detto: a Roma ormai da una ventina d’anni è stata creata l’Accademia di San Luca, un luogo dove artisti, pittori, scultori, si riuniscono. Siamo in piena Controriforma e questa Accademia è perfettamente in linea con i dettami tridentini: aiuto reciproco, condivisione, collettività, rispetto dell’iconografia religiosa, timore di Dio.
Un po’ di contesto. Nel 1564 muore Michelangelo, per Caravaggio dobbiamo aspettare ancora un po’ e lo stesso per Bernini e Borromini. Siamo nel tardo Cinquecento, l’arte ha dato il meglio di sé e adesso che tutti i più grandi sono morti, stenta a ripartire. Soprattutto a Roma.
Ma è proprio qui che si forma un artista d’eccezione: Scipione Pulzone. Originario di Gaeta, nasce intorno agli anni quaranta del Cinquecento e muore nel 1598. La sua formazione, abbiamo detto, è tutta romana. Ed è proprio qui che entra, prima come esponente e poi come vero e proprio Virtuoso, nell’Accademia di San Luca. Non ci soffermeremo sulla sua arte, basti dire che le opere di Scipione Pulzone si limitano alla pittura, in particolare all’olio su tela -non praticherà mai l’affresco, esattamente come Caravaggio-, e che i suoi colori, le sue forme, la sua lenticolarità riprendono una tradizione strettamente fiamminga, la coniugano in chiave romana ed esattamente così la donano al grandissimo Michelangelo Merisi, Caravaggio. Detto questo, veniamo al punto.
Dunque, Accademia di San Luca, 1583: Scipione Pulzone ha un rivale, Federico Zuccari. Lo stesso del Palazzo Zuccari di Andrea Sperelli, per intenderci. Una personalità complessa, ombrosa. Torniamo indietro di qualche anno. 1580: su commissione dello scalco di papa Gregorio XIII, il bolognese Paolo Ghiselli, Zuccari esegue una pala con la Processione di San Gregorio per la cappella familiare in Santa Maria del Barracano a Bologna. L’opera viene posta sull’altare e dopo qualche mese viene sistematicamente restituita all’autore, per motivi non del tutto chiari. Zuccari propone di eseguire un’altra pala d’altare, il papa rifiuta. Il pittore realizza così la Porta Virtutis, un’opera colma di allegorie, dove fondamentalmente sostiene la virtù dell’artista contrapposta all’ignoranza del committente. Per questo, Zuccari viene mandato in esilio. Fino al 1582 i rapporti con Scipione Pulzone, suo collega nell’Accademia di San Luca, risultano distesi. Ma nel 1583 Zuccari torna a Roma e avviene un episodio che sintetizza perfettamente la irrimediabile rottura tra i due.
Il nome dell’Accademia deriva da un quadro, forse erroneamente attribuito a Raffaello, rappresentante San Luca che dipinge la Vergine. Ebbene, questo quadro viene preso come modello dagli accademici, un modello raffaellesco, di grande autorità in campo artistico, e per questo intoccabile. Il restauro dell’opera viene affidato proprio a Scipione Pulzone che, un po’ per correttezza e un po’ anche per vanagloria, decide di mettere il proprio nome sulla tela, per indicare la sua opera di restauro. Quando Zuccari torna a Roma e vede il nome di Pulzone sulla presunta tela di Raffaello, la copre di vernice e poi la gratta via: una personalità complessa, abbiamo detto. Infatti, il 1583 risulta essere proprio l’ultimo anno in cui Scipione Pulzone compare presso l’Accademia di San Luca. In parte per motivi ideologici, dettati dal fatto che il pittore non rappresentasse la sempre più diffusa corrente controriformista, in parte perché la sua fama, a Roma, era tale da permettergli di ritirarsi da un’istituzione pubblica.
Questa, in sostanza, la storia dei due pittori.
La tela di San Luca, negli anni successivi, verrà studiata dagli storici dell’arte, verrà contestata l’autografia raffaellesca e verranno fatti altri due restauri. Il primo viene assegnato dall’Istituto Centrale del Restauro ad Augusto Vermehren, esponente delle innovative metodiche d’intervento in voga in quegli anni, il quale, per parafrasare Carlo Alberto Petrucci, realizza un vero pasticcio: vengono evidenziate infatti lacune pittoriche che lasciano in vista l’imprimitura bianca della tavola e dividono la composizione in quattro fasce verticali. Il secondo restauro, invece, viene realizzato da Cellini, rappresentante della tradizionale scuola romana del restauro “artistico”, che realizza un lavoro eccellente. Vermehren, tuttavia, recupera la firma di Scipione Pulzone grattata via da Zuccari, e decide di lasciarla sulla tela. Cellini, invece, per preservare l’autografo -presunto, lo ripetiamo- raffaellesco, decide di toglierla.
Siamo in una Roma che ha perso la grandezza, la maestosità, il genio di Michelangelo, ha lasciato da parte le forme rotonde, accoglienti, classicheggianti e imponenti di Raffaello e ha dovuto rinunciare anche a quei pulviscoli tutti scientifici di Leonardo. Ed è proprio qui che si inseriscono degli artisti minori, meno conosciuti e destinati a non essere tramandati ai posteri -non a tutti, almeno-. Degli artisti che però, con il loro stile, hanno lasciato un’impronta indelebile nella pittura del secondo Cinquecento, un’impronta che farà la sua comparsa, sistematicamente, nei nuovi geni del Seicento.
Fonti: Scipione Pulzone e il suo tempo, a cura di Alessandro Zuccari.