Oggi parliamo di canone. Non è farina del nostro sacco, no: anche noi attingiamo a una fonte, facciamo riferimento a un canone e cerchiamo di trarre le nostre conclusioni. Fidandoci di una testa –più o meno- rutilante e di basi ormai abbastanza solide.
Solo gli scrittori mediocri sono tranquillizzanti, diceva Alberto Asor Rosa. E un canone lo è? Di che stiamo parlando, innanzitutto?
Un canone è un patrimonio, una fortuna, un porto sicuro, un passato standardizzato e messo a disposizione dei posteri. Una casa in cui tornare quando fa freddo e fuori piove, un rifugio, un antidoto contro la pagina bianca.
Pro e contro.
La cultura, innanzitutto: è ovvio che per attingere al canone –a un canone?- siano necessarie la conoscenza, la competenza, una completa digestione di tutto ciò che questo canone rappresenta e comprende. Il che implica una cultura incredibile, la lettura e l’analisi di un numero altissimo di opere, una testa che si espande, insomma. E che pensa. E la fantasia, per non cadere in una deprimente imitazione. Prendere un testo, leggerlo, farlo proprio, capirlo, amarlo, scriverne un altro che profuma di quello ma ha un altro sapore. La capacità di mettersi alla prova e di gareggiare con i più grandi: partire da loro per creare qualcosa di più bello, di più profondo, sconfiggere un autore sul suo stesso terreno. Questi i pro.
L’annichilimento dell’estro, il primo contro. Cioè: sapere che esiste un canone, sapere che è quello ad avere l’autorità e che per scrivere un’opera degna di nota si debba per forza attingere a quel canone, non rischia di distruggere qualsiasi forma di fantasia, di estro, di creatività? Rischia, sì. Nello specifico, rischia di costringere autori, artisti a fare riferimento a qualcosa di universalmente riconosciuto come bello e non considerare ciò che non ne fa parte. Non andare avanti, insomma. Una letteratura sterile, un’arte sterile. L’impossibilità di andare avanti, lo stallo. Prendere dal passato, creare cose nuove ma essere incapaci di creare qualcosa che sia completamente distaccato da ciò che già esiste e che già è considerato come autorevole, essere incapaci di scrivere un’opera che non rispetti un canone che ormai si è imposto e che forgia la letteratura del presente, del passato e del futuro. Una gabbia, insomma.
Non vi aspettate spiegazioni: non siamo qui per insegnare, noi. Siamo qui per riflettere e abbiamo deciso di farlo su un foglio di carta, il migliore interlocutore che potremmo desiderare.
Quindi, ecco il punto. O un punto, uno dei tanti diciamo. Il fatto che un canone esista è cosa certa, così come lo è la consapevolezza che questo canone influenzi inevitabilmente tutta la letteratura che è stata prodotta e che viene prodotta ancora oggi. Verrebbe da chiedersi chi abbia istituito questo canone e su quali basi, ma questo discorso ci porterebbe davvero troppo lontano. Diciamo che ci fidiamo. Il problema, però, è che l’esistenza stessa di un canone –qualsiasi esso sia-, rischia di mortificare la creatività di chi scrive, costringendo ogni opera letteraria a inserirsi in un ordine ben preciso di regole da cui non può sfuggire. In altre parole, la morte della creatività.
Più andiamo avanti a scrivere e più ci rendiamo conto quanto questo discorso crei un immenso circolo vizioso da cui, davvero, non si esce. Scrivere un’opera facendo riferimento a un canone consolidato, autorevole e bellissimo, inconsapevolmente o consapevolmente, rendersi conto di non riuscire a uscire dalle regole di quel canone, cercare di farlo e penalizzare la propria opera in quanto anarchica rispetto a esso. Un discorso immenso, che tocca veramente ogni sfera della creatività, della produzione e della fruizione. Che attraversa orizzontalmente chiunque si occupi di letteratura, dallo scrittore al lettore, e contribuisce a portare avanti un’arte meravigliosa sì, ma forse ancora una volta troppo anacronistica.