La vita e le esperienze influenzano sempre le creazioni degli artisti. Isabelle Allende non fa eccezione. Vi sono poi quei casi in cui scrivere è una sorta di terapia. Alla scrittrice cilena è capitato con “Paula”, come lei stessa afferma “per uscire dal tunnel” (così com’è riportato sul sito ufficiale italiano http://www.isabelallende.it/index.php?id=185).
“Paula” infatti non è nato come libro. Anzi la Allende non avrebbe mai pensato di scriverlo. Il romanzo infatti è il diario che la scrittrice tenne mentre assisteva la figlia in coma. Parole nate dall’idea di non far sentire la figlia sperduta una volta che si sarebbe svegliata.
E’ il dicembre 1991 quando Paula si ammala di porfiria, cadendo poco dopo in coma. La madre corre quindi a Madrid per assisterla. Il racconto parte proprio dalle corsie dell’ospedale di Madrid in cui è ricoverata Paula. Si alterna con la stanza d’albergo dove Isabel alloggia con la madre, e poi sola. Terminerà poi nella casa in California che divide con Willie, il secondo marito. Qui deciderà di portare la figlia nell’estremo tentativo di guarirla.
La Allende si trova così a raccontare alla figlia dell’origine della famiglia materna. Dell’inizio della leggenda familiare con lo sbarco di un marinaio basco. Di come il nonno, costruitosi la ricchezza con il duro lavoro in seguito alla morte del padre, promuoveva l’idea dell’essenzialità. Della sua credenza che i bambini dovevano essere temprati sin da subito, di come quindi non obiettasse agli scherzi crudeli che gli zii facevano a Isabel e i fratelli. Di come fosse al contempo un uomo affettuoso, il mitico Tatà, che accolse la figlia (madre dell’autrice) dopo la fine del matrimonio con Tomas Allende (cugino del politico Salvador). Nonostante avesse fin da subito disapprovato quell’unione. Racconta della Memè, la nonna dotata di poteri soprannaturali, e della strana storia d’amore tra lei e il Tatà.
Il racconto si alterna tra il passato e il presente. Così si passa dal Cile a Madrid, dal Perù al Libano, dall’Europa alla California. Dalle sedute spiritiche della Memè allo sbarco americano in Libano. Dai viaggi lungo paesaggi scoscesi con il Tata a quello in Europa con Micheal, il primo marito.
Allo stesso modo dall’infanzia si passa all’adolescenza in Libano al seguito del patrigno diplomatico (zio Ramòn). Si approda poi alla giovinezza,segnata dal colpo di Stato che, viene raccontato nei minimi particolari. Non solo il golpe in sé, ma anche come ci si arrivò e ciò che lo seguì. In un susseguirsi di sotterfugi, di aiuti clandestini, dissidenti nascosti in casa e gente aiutata a fuggire.
Finché Isabel rendendosi conto del pericolo legato al cognome Allende decide insieme al marito e ai figli di emigrare. Toccante è il momento dell’addio al Tata. A cui per colpa della dittatura dirà addio da lontano, per mezzo di una lettera che, diventerà il suo più grande romanzo (“La casa degli spiriti”).
Così da giornalista si inventerà una nuova vita in un nuovo paese. Un paese in cui all’inizio non penserà di rimanere,perché il pensiero è sempre alla patria. Per questo esiterà a lungo prima di piantare il non ti scordar di me cileno.
Nonostante il dolore. Quello della malattia così come quello conseguente al golpe. Il dolore della famiglia di Salvador Allende, e del popolo che lo acclamava. Nonostante l’angoscia di Isabel per la figlia. Di quella delle madri, e famiglie degli scomparsi in Cile, come sotto le altre dittature sudamericane. Nonostante tutto questo dolore “Paula” non è solo un libro triste.
La sua tristezza ha la stessa inevitabilità che, ha quella della vita. Proprio come la vita è anche un libro felice, felice nei racconti dei ricordi che si intrecciano con i più dolorosi. Vi è un continuo mescolarsi di sentimenti ed episodi. Una danza sempre armonica, perché i passaggi non sono mai sconnessi.
Fino alla conclusione quando l’autrice si dovrà rassegnare a lasciar andare Paula. Sarà la figlia stessa a chiederglielo tramite un sogno più che mai vivido. Così Isabel si rifugia in quella natura tanto amata. La stessa che più le mancava della patria, e che ritrovò proprio in California. La stessa dove urlando e mischiando la sua voce al canto di alberi e uccelli, lascia andare il nome di Paula nell’aria. Libera la figlia facendola librare nel cielo, e al contempo libera sé stessa.
Il romanzo, terapia per l’autrice, diventa quindi per noi lettori un insegnamento. Una lezione per saper affrontare la vita anche quando ci dà le prove più dolorose. Fino alla più estrema: il distacco. Un distacco che non sarà mai definitivo. Perché come alla fine la scrittrice comprende, si è tutt’uno con la natura, mentre i morti continuano a vivere in noi. Con noi continuano a camminare. Solo in una dimensione a noi preclusa. Perché “Non esiste separazione definitiva finché esiste il ricordo”.
Fonti: Isabel Allende “Paula” Edizione economica Feltrinelli (2005).