Hanno fatto molto rumore le dichiarazioni del fondatore di Twitter, Evan Williams, secondo cui Internet non funziona più e i social network si sono rivelati un disastro politico se Trump ha potuto affermare che senza Twitter non avrebbe mai vinto le elezioni. I mass media italiani sono rimasti colpiti da simili affermazioni e le hanno rilanciate interpretandole come un mea culpa da parte del mondo della Rete per aver dato vita al cosiddetto “populismo”.
Evan Williams infatti può essere considerato un padre fondatore del Web 2.0, cioè del concetto di Rete che sta alla base non solo dei social network, ma anche di quell’idea rivoluzionaria di Internet come nuova grande agorà virtuale e collaborativa che agli inizi degli anni 2000 ha profondamente cambiato il mondo dei siti Web. Con il lancio della piattaforma Blogger la Rete si apriva alla gente comune: non era più necessario essere smanettoni o esperti programmatori per potersi ritagliare uno spazio nel mare magnum di Internet. È forse su questo punto quindi che avrebbero dovuto stupire le dichiarazioni di colui che con la sua audace creazione ha reso possibile a tutti vivere Internet non più solo come uno spazio da fruire ma come un nuovo strumento comunicativo dalle enormi potenzialità ora alla portata di tutti. Ebbene adesso le sue considerazioni invece sono:
“Un tempo pensavo che, se avessimo dato a tutti la possibilità di esprimersi liberamente e scambiarsi idee e informazioni, il mondo sarebbe diventato automaticamente un posto migliore. Mi sbagliavo. Non tutti siamo persone perbene. Gli umani sono umani. Non è un caso che sulle porte delle nostre case ci siano serrature. E invece Internet è iniziato senza pensare che avremmo dovuto replicare questo schema, online.“
Come interpretare queste parole? Ci si deve scorgere in controluce un pericoloso pensiero censorio che minaccia la libertà di parola, cioè il dogma per antonomasia dell’Occidente post-illuminista e post-ideologico? In esse, a ben vedere, in realtà si possono individuare le tracce di una consapevolezza che sta progressivamente prendendo corpo in tutti i big delle rete sociali: mettere in contatto, far incontrare e discutere tra loro persone attraverso strumenti di intermediazione digitale significa fare comunicazione. I social network quindi ormai non sono più una semplice infrastruttura, una neutra rete ma sono dei veri e propri media, che devono trovare una loro regolazione ben precisa e in questo quadro devono prima o poi trovare una loro organizzazione, così come agli inizi della stampa si passò da un universo caotico e sregolato all’industria editoriale strutturata. In questo senso le parole di Evan Williams tradiscono il pensiero recondito di essere l’editore di riferimento di Twitter, e quindi di essere responsabile di quello che vi si dice: perciò si sente costretto a scusarsi se qualcuno nei suoi media dice qualcosa di non concordato e non condiviso con l’editore.
Del resto su Facebook si assiste a dinamiche di questo tipo forse in maniera ancora più marcata. Il Guardian è riuscito a entrare in possesso di documenti interni a Facebook che mostrano un’estrema discrezionalità da parte di Palo Alto nel giudicare quali post siano da considerarsi inammissibili su Facebook. Quasi come un direttore responsabile Mark Zuckerberg ha stilato una serie di criteri guida non nati da un’autoregolamentazione della rete, ma imposti d’autorità (e, se non fosse stato per questi leaks, mai neppure comunicati). Ha poi fatto ugualmente scandalo la scoperta di Gizmondo, prima seccamente smentita e poi sostanzialmente ammessa, secondo cui Facebook per la sua sezione Trending News non solo avrebbe assoldato giornalisti (il servizio era dichiarato funzionare sulla base di algoritmi automatici), ma addirittura avrebbe dato loro precise istruzioni su quali notizie promuovere e su quali invece oscurare. Di fronte a pratiche di questo tipo è difficile poter considerare Facebook un semplice sistema di distribuzione automatizzata di notizie sulla base di alcuni parametri recuperati da interazioni online: siamo in presenza piuttosto di una chiara politica editoriale.
È in YouTube però che si vede in modo forse ancora chiaro una metamorfosi ormai praticamente completata dalla fase iniziale di social network allo status attuale di social media. YouTube ormai si è strutturato in una piattaforma di condivisione mediatica, destinata a forme di comunicazione ormai strutturate, elaborate e soprattutto scarsamente pensate per una fruizione limitata a una ristretta cerchia, cioè a network privati di amici. I cosiddetti youtubers sono diventati da tempo vere e proprie figure professionali, per la qualità sempre più elaborata a livello tecnico e organizzativo dei video postati, e talvolta hanno raggiunto anche il rango di star mediatiche, che proprio grazie alla loro attività sul social di Google sono riusciti a ottenere fama e successo. Se si pensa poi a cosa è successo all’editoria musicale con l’avvento di YouTube, non si può non vedere come YouTube ormai sia diventato uno strumento mediatico tanto quanto lo sono la radio e la TV: il criterio di successo di un singolo musicale ormai non è quasi più la quantità di dischi venduti ma il numero di visualizzazioni su YouTube.
Di fronte a questa generalizzata e inevitabile trasformazione dei social network in social media le parole di Evan Williams su Donald Trump dovrebbero far riflettere molto più in profondità: i conflitti di interessi che abbiamo visto fino ad oggi tra sistemi mediatici e organizzazione politico-statuale sono nulla a confronto del potere che i nuovi social media potrebbero presto avere.
Fonti: nytimes.com, corriere.it, lastampa.it, gizmondo.com, facebook.com, theguardian.com, huffingtonpost.it, punto-informatico.it, repubblica.it, ilsole24.com
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Un commento su “Facebook, YouTube e Twitter da social network a social media”