“Le città sono piene di gente. Le case piene di inquilini. gli alberghi pieni di ospiti. I treni pieni di viaggiatori. I caffè pieni di consumatori. Le strade piene di passanti. Le anticamere dei medici piene di ammalati. Gli spettacoli (…) pieni di spettatori (…) La moltitudine, improvvisamente s’è fatta visibile (…). Prima, se esisteva, passava inavvertita, occupava il fondo dello scenario sociale; adesso s’è avanzata nelle prime linee, è essa stessa il personaggio principale. Ormai non ci sono più protagonisti: c’è soltanto un coro.”
Così, già nel 1930 lo spagnolo Josè Ortega y Gasset definiva la società di massa nel suo libro ‘La Ribellione delle Masse’ che conobbe e rese protagonista della sua arte, senza nascondere una malcelata avversione, il più importante artista della Pop Art: Andy Wharol, nato due anni prima della conclusione dell’opera dello storico.
Il fenomeno della massificazione era vivo negli anni dell’America di Andy Warhol che fece della sua arte un consumo, al pari dell’immagine di Marylin Monroe e della zuppa Campbell acquistata da milioni di americani.
Poco prima di morire nel 1987 per un intervento alla cistifellea (a cui si sottoponeva regolarmente) aveva inaugurato una mostra a Milano in cui espose la sua opera Sixty Last Supper ovvero una propria rielaborazione dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, attraverso 60 xilografie in bianco e nero poste una affianco all’altra su una tela di 10 metri. La xilografia è la stessa tecnica che Warhol usò per sue opere più famose che permetta di riprodurre ”in serie” la stessa immagine ma per la sua ”Ultima Cena” preferì il bianco e nero rispetto ai colori vivaci usati normalmente.
Dopo aver reso parte della sua popular art la Monnalisa, Warhol tornò a pensare a Leonardo e in particolare alla sua Ultima Cena vedendo anche in questo un ”consumo di massa”: chiunque conosce l’opera di Leonardo che ritrae l’ultima cena di Gesù a prescindere che l’abbia vista dal vivo.
Fonti: http://museodelnovecento.org/it/mostra/andy-warhol-sixty-last-suppers
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