E’ molto difficile recensire questo disco. Sarebbe stato molto più facile esprimere la delusione dopo il primo ascolto e accantonarlo, ma il nome della band costituisce per la sottoscritta un imperativo morale non indifferente. Un’infanzia, un’adolescenza e i primi albori di un’età adulta passati con i Jamiroquai tra gli elementi di spicco della loro colonna sonora non possono essere liquidati con un secco “non mi piace”.
Me lo sono autosomministrato col contagoccie, mi sono sforzata di capirlo, sono forse riuscita a mettere da parte quella repulsione ossessiva verso il commerciale e il mainstream che affligge chi, come me, è appassionato di musica alternativa e credo di averlo finalmente digerito. Non senza l’aiuto di terzi, beninteso. E’ stato un duro lavoro ma ne è valsa la pena.
Analizzare un album a fondo scomponendolo, misurando e pesando ogni singolo suono, armonia, ritmica, andare a cercare le tracce dei sentimenti di ogni singolo musicista seppellite in profondità sotto al suo modo di suonare; tutti questi sono dei passatempi molto facili e divertenti quando già si ama la musica che si sta ascoltando. Quando invece non si è convinti è tutto un altro paio di maniche, è un lavoro impegnativo che di solito le persone sane di mente si risparmiano volentieri e senza troppi sensi di colpa. Ma è una maniaca della musica quella che sta scrivendo.
La prima cosa che viene da dire ascoltando Automaton, uscito il 30 marzo di quest’anno, è che sia troppo commerciale rispetto ai lavori precedenti dei Jamiroquai. Ma è veramente così? Se parliamo di successo commerciale si, potrebbe essere, visto che in pochi giorni ha raggiunto la testa delle classifiche di ben 38 paesi di tutto il mondo. Ma parliamo di musica, non di mercato. Potrebbe dunque essere commerciale nel senso che complessivamente è un album molto orecchiabile, dal carattere neutro, adatto a tutti i gusti e le occasioni. Però per gli abituè della musica alternativa (che, oltretutto, anche sulla definizione di alternativa si potrebbe aprire un discorso lunghissimo) la parola “commerciale” ha un senso ancora diverso e totalmente dispregiativo: la musica incriminata è quella delle masse nel senso più marcio del termine, quella dei cosiddetti “bimbiminchia”, i tormentoni dell’estate, quella che non ha nessun valore musicale in sè ma viene messa insieme incollando sample a caso e pompata nelle casse delle discoteche più scadenti, oppure quel pop ultra melenso fatto coi soliti quattro accordi e i testi scritti facendo “copia e incolla”. Non è decisamente questo il caso.
Per come la vedo io, Automaton è un album perfetto per creare un po’ di groove e ambient ad una festa di gente un po’ più cresciuta, però è abbastanza sostanzioso da dare delle soddisfazioni anche agli intenditori. Se si fa lo sforzo di andare oltre le linee vocali non particolarmente fantasiose, i testi pressochè inutili, i riff e le melodie non esattamente innovative e a tratti fin troppo da Febbre del Sabato Sera, insomma, l’idea che essendo dei Jamiroquai doveva per forza essere una cannonata, ci si accorge che dal punto di vista tecnico è assolutamente ineccepibile e per nulla il risultato di una mera mossa di marketing. D’altra parte questo non l’ha mai dubitato nessuno: ciò su cui si può sempre e comunque andare sul sicuro parlando dei Jamiroquai è che prima di tutto sono imprevedibili; poi, qualsiasi cosa decida di fare il capriccioso Jay Kay, la farà sempre al livello più alto possibile. Ebbene si, imprevedibili perchè per quanto possa suonare mainstream questo album, nessuno se lo sarebbe aspettato così. Fin troppo semplice.
Quello che da un ascolto maniacale traspare sommessamente in profondità è l’immagine di un gruppo di musicisti formidabili, ormai (diciamolo pure) belli maturi e con un bagaglio di esperienza alle spalle notevolissimo, che ha deciso di ritrovarsi dopo ben sette anni dalla loro ultima avventura per di
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