La morte è un concetto molto importante nella cultura indoeuropea, legato alla vita ultraterrena, al corpo, all’idea che i vari popoli avevano della religione e soprattutto alla cultura.
Morte, in latino mors. Ma mors è un termine generico, che indica la morte senza spiegarne bene i motivi. Esiste un altro termine per indicare la morte, nex, che solo in età imperiale diventa sinonimo di mors. In età classica, invece, nex è più specifico, indica la causa della morte (per uccisione, violenta, per condanna, esposizione… E raramente per malattia). Da questo possiamo concludere che mors indica la morte in senso generico, senza specificare bene per quale motivo, mentre nex indica una morte forzata, o comunque prematura. Il concetto di morte prematura merita un approfondimento, in quanto nella cultura latina solo quella per malattia viene considerata prematura, mentre nella cultura vedica, ad esempio, qualsiasi morte che non sia legata alla vecchiaia è considerata prematura. Questo perché il mondo classico conosce il concetto di fatum (fato), e la morte per volontà del fato viene considerata una morte naturale. Questo, naturalmente, non riguarda qualsiasi morte, in quanto questa può essere anche violenta e quindi non prodotta da eventi naturali. Ma per ciò che concerne la cultura greca e latina la morte per malattia e per vecchiaia vengono considerate entrambe naturali, inevitabili.
Analizziamo ora il termine greco nèktar, considerando la sua base nominale, *nek –che indica la morta prematura in latino- e quella verbale *ter, che nel sanscrito vedico indica proprio il superamento della morte prematura. Non possiamo dire se anche il sanscrito abbia conosciuto e poi abbandonato il doppio nome della morte. Se così fosse, ciò vorrebbe dire che sia il greco che il latino conserverebbero un tratto del lessico indoeuropeo. Una curiosità, poi: il nettare e l’ambrosio, gli alimenti degli dei, gli alimenti dell’immortalità. Ebbene, anche all’interno di questi due nomi vengono distinte due accezioni della morte: nel nome del nettare è contenuto quello della morte prematura, in quello dell’ambrosia quello della morte naturale. Ecco quindi il carattere universale della morte: naturale per gli uomini, innaturale e violenta per gli dei, ma comunque presente.
Torniamo ora al termine nèktar. Thieme sostiene che sia composto dal nome della morte *nek e dal grado ridotto della base indoeuropea *ter (attraversare). Il nettare sarebbe quindi la pozione magica che farebbe attraversare, cioè vincere la morte. Ma nel mondo indiano la stessa espressione è usata in termini positivi, riferita a un possibile attraversamento della vita, cioè prolungarla. La morte viene vista quindi come una strettoia da oltrepassare, come un evento naturale, necessario, ma che bisogna sconfiggere. E infatti, nel pensiero vedico, la parola morte e la parola strettoia sono sinonimi. Se l’etimologia di nèktar è giusta, quindi, è chiaro che l’immagine della vittoria sul male e sulla morte come attraversamento di una strettoia è indoeuropea.
Ma in vedico non tutte le morti vengono indicate come “strettoie”. Ci ricolleghiamo qui al discorso di morte prematura: Geib ha notato infatti che quella che si vince tramite l’attraversamento non è la morte naturale ma quella prematura. Il pensiero vedico, dunque, distingue nettamente la morte per vecchiaia da quella prematura. E solo la morte prematura viene considerata come un male da allontanare, mentre la morte per vecchiaia viene considerata naturale, e la sua antitesi è la giovinezza eterna, per questo motivo gli dei vengono considerati giovani e incapaci di invecchiare.
La vecchiaia, a sua volta, è vista come una rovina, un vero e proprio “logoramento”, a cui tutti gli esseri umani sono sottoposti e che tutti gli dei, invece, possono evitare. Altro elemento immortale, non sottoposto al logoramento della vecchiaia, è la gloria, immortale, unica àncora di salvezza degli uomini contro la morte.
Vediamo ora un altro argomento fondamentale all’interno della cultura degli indoeuropei, che dipende ed è strettamente legato alla morte. Un argomento che parte dalla morte stessa ma che prescinde dal concetto e dalle diverse sfumature linguistiche che essa assume all’interno delle varie parole, un argomento che non ha niente a che vedere con la sintassi né con la morfologia, ma che riguarda un aspetto meno pratico, molto più teorico, prettamente ideologico e culturale, legato alle usanze, alle credenze e agli usi di ogni singolo popolo, ma soprattutto legato in maniera imprescindibile alla religione: l’oltretomba.
Dobbiamo partire dal presupposto che la religione degli indoeuropei fosse completamente diversa dalla nostra, in quanto non aveva a che fare con questioni metafisiche. Il suo unico scopo era quello di garantire i beni terreni. Gli uomini non si ponevano domande esistenziali né tentavano di cercare nella religione la risposta a queste. La religione era uno strumento pratico, il legame tra gli uomini e gli dei, un modo attraverso cui l’uomo poteva condurre un’esistenza agiata sulla terra. E accanto alla religione si sviluppa il culto dell’oltretomba, non in contrapposizione con la religione stessa, ma in maniera del tutto parallela.
Nel mondo celtico, germanico, baltico e vedico si sviluppa il culto delle Madri, divinità che proteggono i loro fedeli donando abbondanza e salvezza, dotate di un carattere amorevole, affettuoso, tutto femminile. È importante sottolineare il fatto che si tratti di divinità femminili, in quanto la religione indoeuropea prevedeva unicamente divinità maschili, mentre le donne potevano essere solo personificazioni di fenomeni naturali (Notte, Aurora…), o come mogli di divinità maschili, così poco importanti da non avere un nome proprio ma da prendere direttamente quello del marito (ad esempio, la sposa di Varuna è Varunani).
Primo, divinità femminili che proteggono affettuosamente gli uomini.
Secondo, qualche ipotesi su cosa ci sia dopo la morte. Ebbene, sappiamo che i Celti –e forse anche gli indiani-, credevano nella metempsicosi.
Poi, la vita ultraterrena, la discussa, importante e assolutamente fondamentale vita ultraterrena, fatta spesso di felicità, serenità, allegria, spensieratezza e beatitudine: basti pensare ai Campi Elisi (o Isole dei Beati) in Grecia o alla Terra dei Viventi in Irlanda, che venivano viste isole lontane, occidentali, a cui si poteva arrivare solo dopo aver superato moltissime difficoltà. Parliamo di luoghi idilliaci, che garantivano una vita eterna e felice, ma che erano complicati da raggiungere, che richiedevano uno sforzo fisico, mentale, una vita assolutamente pura, pulita, e moltissimi presupposti. I Campi Elisi, le Isole dei Beati, la Terra dei Viventi e tutti gli altri luoghi che ricordano un po’ il nostro Paradiso infatti, erano riservate a una cerchia ristretta di persone che dovevano attraversare pericoli e difficoltà per arrivarci. Tutti gli altri, invece, secondo le credenze indoeuropee, erano destinati a sopravvivere in luoghi bui, infelici, in cui regnava la tristezza e il dolore. Un esempio può essere rappresentato dalla Nékyia, in cui Omero racconta come Achille, il più coraggioso degli eroi greci, preferisse essere il bracciante di un contadino sulla terra piuttosto che andare nell’oltretomba.
L’oltretomba non ha niente a che vedere quindi con il nostro Paradiso, la vita ultraterrena non è vista come una ricompensa da guadagnarsi durante la vita terrena –se non per pochi eletti-, è vista più che altro come un luogo di infelicità, di tormenti e sofferenza. La felicità è prerogativa della vita sulla terra, che gli uomini devono condurre in maniera religiosa, strettamente legata agli dei che garantiscono loro felicità e benessere, tramite scambi equi, veri e propri do ut des, sacrifici –anche umani spesso, che sono attestati anche a Roma-, che danno all’uomo la possibilità di vivere una vita fatta di benessere, ricchezza e felicità.
La morte è uno degli argomenti fondamentali nella cultura degli indoeuropei, anch’essa strettamente legata alla religione e che assume moltissime sfumature, basti pensare al concetto di attraversamento, di morte come strettoia da cui scappare, al nome del nettare che contiene il nome della morte prematura, alla differenza sostanziale tra morte naturale –il cui nome è contenuto nel nome dell’ambrosia-, e morte prematura, al fatto che il nettare protegga dalla morte prematura e l’ambrosia da quella naturale. Ma bisogna pensare anche alle differenze fondamentali che la morte ha all’interno delle varie culture: in quella vedica la morte naturale è solo quella per vecchiaia, ad esempio, mentre in quella greco-latina è naturale anche la morte per malattia. Il fato, poi, nato in Grecia e poi introdotto anche a Roma, che restringe la categoria della morte prematura alla morte violenta.
È importante capire queste sfumature per comprendere a pieno la cultura indoeuropea, entrare in un ordine di idee completamente diverso dal nostro e cercare di analizzare tutti gli elementi che lo riguardano, tramite un’analisi in primo luogo linguistica, fatta con la comparazione delle varie parole, dei vari modi di esprimere un concetto così vasto come può essere la morte, ma anche con l’analisi di ogni singola parola e degli elementi che la compongono e che spesso rimandano ad altro, e in secondo luogo culturale, un’analisi altrettanto complessa ma che ci riporta in un mondo antitetico rispetto al nostro, fatto di usi, costumi, usanze, credenze e tradizioni lontane ma che hanno influenzato la storia e la formazione della cultura di tutti noi.