Ammettiamolo: sui social network e su Internet, ormai, si ha davvero l’impressione che tutti siano esperti di tutto e, perciò, idonei a commentare e a dare la propria opinione su questioni di cui hanno conoscenze molto superficiali. A questa nuova dinamica si può associare una condizione che affligge molti e che prende il nome di analfabetismo funzionale.
Con questo termine si indica una categoria di persone che, «[…] pur essendo in grado di capire testi molto semplici, non riesce a elaborarne e utilizzarne le informazioni», secondo Simona Mineo, che lavora come ricercatrice INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche). Non si tratterebbe, perciò, di analfabeti nel senso tradizionale del termine: un analfabeta funzionale sa leggere, scrivere e fare calcoli – non è, perciò, un analfabeta strutturale – ma non è in grado di comprendere, interpretare ed elaborare la realtà circostante, fatica ad usare mezzi digitali ed informatici e spesso fa riferimento all’esperienza personale per l’interpretazione di notizie e dati. In sintesi, ha una capacità di analisi elementare, che si esprime nella sua relazione con la vita quotidiana: ha serie difficoltà, per esempio, a riassumere un testo scritto, a comprendere a fondo un evento di media-alta complessità, ad interpretare un grafico.
Questo fenomeno raggiunge un picco in Italia: il nostro paese (col 28% della popolazione affetta da analfabetismo funzionale) si trova in quarta posizione a livello mondiale dopo Giacarta (Indonesia), Cile e Turchia. Di norma le persone che ne sono maggiormente colpite superano i 55 anni, svolgono professioni non qualificate e hanno un tasso di istruzione abbastanza basso (molti, infatti, non hanno potuto godere della scolarità obbligatoria); a questo gruppo si aggiungono i giovani che non lavorano né studiano. Non solo: si può riscontrare una più alta percentuale di analfabeti funzionali nel sud e nel nord-ovest d’Italia.
Analfabeti funzionali si nasce? No, anche se pare che questa condizione emerga in persone che sono cresciute in ambienti familiari poco formativi: il numero dei libri presenti e letti in casa, in queste situazioni, sarebbe spesso inferiore a venticinque. Ma chi non rientra nelle categorie suddette non pensi di esserne immune: «Senza pratica, le capacità legate all’alfabetizzazione possono essere perse anno dopo anno», afferma Friedrich Huebler, eminente esperto di alfabetizzazione per l’Istituto di statistica dell’Unesco. Un buon modo per prevenire questa condizione è lo studio anche in età adulta e il continuo allenamento del cervello. Alcuni tipi di lavoro garantiscono un costante esercizio della mente e vengono definiti «skilled occupations»: sono, di solito, professioni intellettuali, scientifiche e tecniche.
Perché proprio l’Italia ha un tasso così alto di analfabetismo funzionale? Secondo Simona Mineo i fattori all’origine della condizione sarebbero un abbandono precoce del percorso scolastico, la mancanza di lavoro o una condizione di lavoro precario e l’assenza di formazione sul lavoro.
Il fenomeno è particolarmente visibile se si guarda al mondo della rete. Citando le parole pronunciate da Umberto Eco dopo aver ricevuto la laurea honoris causa in Comunicazione e Culture dei media dall’Università di Torino nel 2015:
«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».
A rincarare la dose ci ha pensato Enrico Mentana, che nel 2016 ha dato del «webete» all’ennesimo impreparato utente che aveva commentato un suo post.
È evidente che questa condizione è frutto di un circolo vizioso che ingabbia l’Italia. Ma come uscirne?
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