Perché? Teoricamente è la domanda che si tende ad evitare maggiormente, la più scomoda, la più profonda, la più pericolosa. I bambini, invece, vivono grazie alla loro leggerezza e curiosità una vera e propria “era dei perché”, un’età in cui, affrontando il mondo, questo gli appare sempre nuovo e tutto da scoprire. Secondo uno studio effettuato dall’Università del Michigan, i bambini iniziano a fare domande e a porre interrogativi anche complessi sempre più precocemente, poiché nativi digitali e millenials crescono in società e culture bombardate da modi continuamente nuovi e sofisticati di relazionarsi con gli altri. I perché divengono una modalità di esercizio e affinamento di nuove abilità, acquisendo sfumature diverse e stratificate, dalla conferma alla conoscenza.
“Perché“, grammaticalmente, è un avverbio, una congiunzione, un pronome relativo. In realtà, può avere reazioni ed intenzioni diversificate: può essere un sassolino nella scarpa, un pugno nello stomaco, un quesito esistenziale, un disastro di dimensioni cosmiche nascosto nella carezza di una voce, di una domanda apparentemente semplice. È diversa da tutte le altre, le celebri “Wh Questions”, in sfumature e spigoli. “Quando” limita il tempo focalizzandolo all’infinito; è l’eterna attesa, a volte, forse, mai conclusa. “Dove” è il mistero dietro l’angolo, la strada in cui perdersi è più facile del previsto; la precisione tra un acciottolato o un sentiero di montagna dove l’ago della bussola non trova più il nord. “Cosa” è la più materiale, tanto terrena e ripetuta da diventare metafisica oltre il limite del surreale. “Come” è l’ambiguità dell’essere e dell’azione, del sentirsi e del rivelarsi; è la messa a fuoco del modo, che trascende e viaggia, esule, in ossimori e mezze verità.
Anche se in un’epoca in cui l’accesso alle informazioni è praticamente immediato grazie ai miglioramenti e gli aggiornamenti quotidiani delle tecnologie, ormai non si trovano più i perché. Non per davvero, comunque. Qualora si trovassero, alla fine, di risposte non ce ne sono, in quanto considerate ovvie o per lasciare il lettore alla sua riflessione – riflessione che, volenti o nolenti, spesso, cade nell’oblio. E quella piccola parola, quelle sei lettere terminanti in un accento comunemente scritto errato, si slegano, si sgretolano, svaniscono.
Perché non ci si chiede più il perché di quello che accade. È troppo difficile. È troppo noioso. “Perché dovrei chiedermi o fare io qualcosa che gli altri non si chiedono o fanno?”. Già una domanda così, per quanto insidiosa, sarebbe un gran bel passo avanti. Tuttavia – di nuovo – è scomoda. E nell’era della comodità, in cui volti sconosciuti ti portano persino la spesa a casa ordinata tramite uno schermo anonimo, perché mai scomodarsi a pensare qualcosa in più?
I perché sono forgiati diversamente da tutto il resto. Ti marchiano a fuoco, che siano essi piccole bruciature da sigaretta o ustioni di terzo grado, e per cercare di curarli puoi e devi solo superare te stesso, per evitare l’insignificante declino culturale, sociale e relazionale causato da quella che Aparo Von Flüe, fisico e docente universitario, definirebbe “evaporazione della curiosità”. Chissà, forse la curiosità non ha mai ucciso per davvero il gatto: e allora, perché no?
FONTI: albanesi.it, treccani.it; mifacciodicultura.it; ilfattoquotidiano.it; superkidsout.it
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