L’avviarsi verso la stagione estiva porta tutti a fare dei bilanci e, guardando a quello che è successo quest’anno, certamente l’evento che ha destato più scalpore è stato l’elezione di Donald Trump al soglio presidenziale americano. Fin dall’insediamento è stato chiaro a tutti che il nuovo Presidente degli Stati Uniti avrebbe sconvolto un po’ il sistema nazionale e gli equilibri internazionali.
Una personalità bizzarra, alquanto sui generis che è riuscita a occupare la poltrona più ambita d’America. E tutto questo grazie ad una politica populista che ha fatto leva sulle sofferenze della middle class americana che, ormai da troppo tempo, aspettava un capovolgimento dell’establishment. Donald Trump ha fornito loro soluzioni semplici e apparentemente immediate per problemi di estrema complessità e delicatezza che hanno spinto gli americani a esprimere a suo favore il diritto di voto nell’elezione presidenziale, a danno della controparte rappresentata da Hilary Clinton. In realtà, l’elezione di Trump è stata punto di partenza e spunto per una riflessione sulla legittimità del suffragio universale, un tema molto scottante che ha creato scompiglio tra l’opinione pubblica internazionale. Quello che viene messo in discussione è uno dei principi fondamentali di ogni democrazia: il diritto di voto concesso ed esteso a tutti i cittadini senza alcun tipo di restrizione.
Ancora una volta, come spesso succede di fronte ad argomenti di tale risonanza, l’opinione pubblica si è divisa tra suffragisti e anti-suffragisti e i due schieramenti hanno portato avanti le loro ragioni. In particolare, la questione è partita proprio dagli anti- suffragisti che, come si può chiaramente evincere, hanno messo in discussione il principio che sta alla base del nostro diritto civile. Il nodo chiave della loro politica è molto semplice. Concedere a tutti di esercitare il proprio diritto di voto non danneggia in qualche misura quella parte di elettorato competente ed informato, ma soprattutto non danneggia l’intera società? Naturalmente c’è chi estremizza sulla questione, ma la domanda cui tentano di dare una risposta gli anti-suffragisti è proprio questa: ogni individuo ha diritto al voto, ma non tutti i voti hanno lo stesso peso. Il diritto di voto di un cittadino informato e istruito può avere lo stesso valore di un cittadino disinformato e, a volte, non istruito?
Ma la critica degli anti-suffragisti non si limita soltanto a denunciare il problema, ma avanza delle proposte. Tra queste, l’attuazione di misure di selezione come, per esempio, un test di cultura generale o un questionario di educazione civica. Ma, a questo punto, una domanda sorge spontanea: per esercitare il diritto al voto quali conoscenze bisogna acquisire? Naturalmente la questione è molto più complessa di quello che qui si cerca di sintetizzare e prendere una posizione non è sempre facile, soprattutto perché la tesi degli anti-suffragisti genera dubbi che, a loro volta, generano altre domande. Oltretutto limitare il diritto di voto in base ad alcuni criteri equivale quasi a voler tornare al suffragio universale ristretto che porterebbe a mettere in crisi l’intero sistema democratico. Una scelta un po’ azzardata che sembra impraticabile da diversi punti di vista.
Naturalmente la corrente dei suffragisti continua a sostenere l’importanza del suffragio universale esteso a tutti i cittadini senza nessuna distinzione né di ceto, né d’istruzione, né di razza o religione. Certo, la questione così facendo rimane aperta, ma forse ci si dovrebbe orientare verso altre soluzioni più praticabili. Da un lato, infatti, se si vuole, si potrebbe pensare ad assegnare una differenziazione rispetto al tipo di voto. Per esempio, distinguere il voto locale e regionale dal voto nazionale; e a sua volta distinguere, laddove è previsto, il voto nazionale da quello federale di modo da creare degli step selettivi. In questo modo, il diritto di voto sarebbe concesso a tutti, ma il peso di ciascun voto sarebbe diverso. Potrebbe essere un compromesso accettabile? A voi la riflessione!