I Greci: dispensatori del bello per virtù e senza necessità

In tutte le epoche e nell’immaginario collettivo l’arte greca dell’età classica è emblema di purezza, bellezza, biancore: nella mente di ogni uomo la parola perfezione si accompagna, almeno istintivamente, con le statue di Fidia e di Prassitele. Sarebbe tuttavia errato considerare i Greci, soprattutto mediante la statuaria, come gli apostoli assoluti del bello artistico in quanto, malgrado le apparenze, il suo raggiungimento non era percepito come elemento fondamentale.

Altrettanto non veritiera risulterebbe l’affermazione secondo la quale i Greci non disponevano del concetto di bellezza: esso esisteva, ma non aveva legami con l’arte. I prodotti artistici – o meglio, quelle che noi definiremmo “belle arti” – avevano perlopiù un impiego pratico, in particolar modo religioso, ma erano anche apprezzati per la magnificenza e la ricchezza, tant’è che gli antichi erano soliti anteporre lo splendore dei materiali impiegati alla bellezza delle forme.

Il concetto greco di bello si differenzia totalmente da quello attuale vigente in Occidente: “bello” equivaleva a “degno di essere apprezzato” e a “buono”. Secondo Platone in questa categoria rientrava anche il “bello morale”, dunque la virtù, mentre l’uomo contemporaneo ha diviso da tempo, almeno dalla metà dell’Ottocento, questi due aspetti dell’esistenza.

Gli antichi risultavano invece essere molto legati al concetto di simmetria: con tale termine si intendeva non l’immagine speculare di un oggetto, bensì la proporzione pura e semplice. Questa qualità non aveva carattere sensibile, ma intellettuale: non era importante che essa fosse esperita mediante i sensi, poiché doveva essere conosciuta e compresa dall’intelletto. Essa non era definita come un concetto artistico: veniva dunque ricercata all’interno della natura e, qualora risultasse il più vicina possibile al mondo naturale, nell’arte. Essenza delle cose, anima dell’universo, la simmetria indicava l’ordine cosmico, eterno e sacro; il prezzo da pagare era dunque la mancata possibilità di farne esperienza diretta.

In epoca postclassica si affacciò un nuovo concetto, l’euritmia. Essa designava, come la simmetria, l’ordine delle cose, cui aggiungeva lo specifico intento di essere sensibile e di essere percepibile mediante componenti fisiche, ottiche, acustiche. Grazie alla sua accessibilità ai sensi l’euritmia divenne uno dei concetti fondanti dell’arte.

Agli artisti greci non restava che inserirsi in due correnti opposte: i più anziani e gli architetti si appoggiarono alla perfezione eterna della simmetria e ai sempre validi canoni del bello; gli artisti più giovani, al contrario, rimasero affascinati dalla realizzazione del bello sensibile, che avrebbero potuto realizzare mediante la componente illusionistica della loro arte. I primi trovarono un valido sostenitore in Platone, strenuo difensore del bello assoluto e sovra sensoriale, mentre capostipite dei secondi fu Lisippo: scultore fra i più noti e apprezzati, egli si preparava a rappresentare gli uomini così come appaiono, non più come essi sono.

Nella tarda Antichità si diffuse una nuova idea del bello, rappresentato ora dalla perfetta proporzione di una parte con le altre, con l’insieme e con un bel colore. Il cammino che la percezione sensibile del bello aveva compiuto nei secoli aveva dunque riscontrato una tappa fondamentale: la bellezza, che già non si poteva considerare sciolta dalla componente visiva, manifestava ora un forte, nuovo legame con la componente cromatica.

 

Fonti:

Testo: W. Tatarkiewicz, Storia di sei Idee, Palermo, Aesthetica Edizioni 2011
Immagini: it.pinterest.com

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