Andavo sempre alla stessa biblioteca. Ogni tanto qualche ragazzo mi fermava per chiacchierare, solite conversazioni noiose. Cosa studi, che caldo oggi, domani ci sarai. Era sempre lo stesso copione più o meno, diciamo che dipendeva sostanzialmente dal carattere e dal tatto del ragazzo in questione, di solito ci voleva poco perché la cosa finisse lì. Non mi piaceva mai nessuno, chissà perché, eppure non facevo altro che pensare ai ragazzi tutto il giorno. Li volevo, li sceglievo e li cambiavo nella mia testa. Spesso li odiavo. Ma quando ne avevo uno vero, in carne ed ossa davanti a me, con una bocca vera e delle mani che avevo già immaginato, di colpo capivo che non mi piaceva e non ci sarebbe stata storia tra noi.
Un lunedì stavo studiando svogliatamente e per la prima volta noto un ragazzo carino, molto carino. Era vestito come uno di quei ragazzi d’oggi che sembra aver fatto il giro del mondo. Wild. Le scarpe erano decenti -grazie a dio-. Questo particolare mi fece ripensare a quella volta che conobbi un tizio e passammo qualche mese insieme. Lui neanche mi piaceva ma quello che non potevo tollerare erano le sue brutte scarpe anonime da vecchio. E suppongo che nella mia decisione finale di lasciarlo, ciò che giocò un ruolo fondamentale e che mi diede la schifosa faccia tosta di inviargli un messaggio per lasciarlo, fu proprio ripensare a quelle brutte scarpe. Mi hanno salvato da una relazione triste.
Dunque vedo questo ragazzo. Fingo di leggere il mio libro ma sto studiando lui. Tutto bene, sembra che almeno da zitto abbia passato la fase iniziale, finché mi accorgo che tutte le ragazze nella stanza quando si alzano per uscire a fumare o andare in bagno, lo salutano, gli danno un buffetto o gli fanno l’occhiolino. Lui saluta sempre tutte, sorride, pare senza malizia ma io -navigata nel campo dei tradimenti- non gli credo. Voglio che si faccia vedere per quello che è. Il solito uomo che ama essere adulato.
Mi serve un appiglio. Il giorno dopo aspetto che lui si prepari la sigaretta, si alza, sistema la sedia e scende le scale. Conto fino a dieci, poi lo seguo. Esco e ho un po’ paura, è una cosa che mi capita sempre quando mi piace qualcuno. Esco e c’è un’aria fredda che non mi aiuterà nell’impresa perché sono una che soffre il freddo, perciò tremerò senz’altro e questo non dà mai una buona impressione. Vedo la sua camicia grigia, è di spalle mi volto per andare verso di lui ed ecco, un’altra ragazza che si è già fiondata lì a parlargli. Che mare pieno di squali. Finiscono la sigaretta insieme e rientrano.
Il giorno dopo ci riprovo. Lo controllo e fingo di studiare letteratura spagnola. Niente è più devastante di un’attesa d’amore: infinita, eccitante, ansiogena. Picchi di euforia e di tristezza infinita. Non funzionerà. È troppo bello per me, guarda quella invece, che capelli, che fianchi e che sicurezza in sé stessa. Aspetto, passano i minuti più lenti della vita di una ragazza: quante ore abbiamo passato dentro quelle stanze di biblioteche con la tosse altrui, la vergogna di far rumore, i crampi della fame e le occhiate furtive.
Lui non esce, non va più a fumare. Mi sento malissimo, l’ho perso anche oggi. Vedo con la coda dell’occhio che prende le sue cose e se ne va. In quel momento sento che ho buttato nel cesso dodici ore della mia vita; non ho dormito pensando a lui, mi sono preparata per lui, truccata, vestita carina e poi qui chiusa in questi quattro muri freddi mentre fuori c’è la primavera e la vita. Oddio, l’amore ti fa fare cose strane si sa, e mentre lo penso, esco e passo di fianco al suo tavolo e vedo per terra, sotto la sedia dove lui era seduto, la sua sciarpa. Ed è un segno, ed è di nuovo primavera dentro di me. Ho qualcosa di suo. La raccolgo e corro fuori, l’annuso ed è il profumo delle peonie e dell’attesa. Domani, domani sarà il giorno in cui ci parleremo finalmente.
A volte bisogna essere più stronzi con se stessi. Tre mesi dopo essere sparito capisco che sperandoci, ho perso duemilacentosessanta ore della mia vita.
È ora di trovare un nuovo ragazzo.