Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Abbiamo pensato che fosse giusto iniziare così: da amanti della prosa, in quanto cinici sostenitori delle congiunzioni, della grammatica e scioccamente diffidenti nei confronti della metrica, abbiamo dovuto fare i conti con la nostra coscienza, siamo stati costretti a scavare e tirar fuori qualche sentimento, prima di scrivere questo articolo. E siamo giunti alla conclusione che fosse più facile iniziare dal testo.
Intanto, Eugenio Montale. Vale lo stesso che abbiamo detto per Leopardi: un manuale di letteratura andrà più che bene. Noi non siamo qui per questo. E, forse, neanche voi. Non ci è ancora chiaro l’esatto motivo per cui siamo qui, a dirla tutta. Ci penseremo tra un attimo.
Eugenio Montale, abbiamo detto: una poesia scritta dopo la morte della moglie. Non ci sentiamo davvero di aggiungere altro, qualsiasi contesto o sovrastruttura sarebbe riduttivo e mortificante. Per chi scrive e per chi legge. Questa è una poesia che trasuda amore, ma non un amore appassionato, giovane, fertile: un amore solido, una specie di sostrato. Un amore quasi inconsapevole nei confronti di qualcuno che a un certo punto, contro la sua volontà, è andato via. E non ci sono rimpianti, paure: c’è solo l’inevitabile accettazione di chi ha amato, ama e sa che continuerà ad amare. Ma la vera forza di questa poesia, almeno per noi, sta nella sua universalità: qualsiasi forma di arte, dalla musica alla letteratura, è a discrezione di chi legge. Ognuno di noi è inconsciamente portato a riversare le proprie esperienze in quello che vede, che percepisce, a inquinare con i propri sentimenti qualcosa prodotto da altri, incurante del fatto che, magari, l’occasione fosse diversa. Le contingenze diverse, le emozioni. Tutti noi abbiamo la necessità, il bisogno di sentire in prima persona qualcosa, per interiorizzarlo: siamo egoisti in questo, e ancora una volta egocentrici. Bene, con questa poesia non è possibile. In un eccesso di megalomania potremmo provare a renderla soggettiva, ci abbiamo provato: è frustrante. L’unico modo per leggerla, e sentirla, è proprio uscire dalla propria persona, dimenticarsi delle proprie esperienze e calarsi in un’altra dimensione: quella del poeta. E allora l’unico destinatario possibile sarà proprio Drusilla Tanzi, la moglie di Montale a cui è dedicata. Ci metteremo anche noi nei panni del poeta e con pazienza, tenerezza e amore le dedicheremo una poesia. Durante la lettura sembrerà anche a noi di averla amata.
Adesso tornate su, leggete di nuovo la poesia e provate a dire che non è così. Provate a leggere gli ultimi versi:
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Converrete con noi che non ci sia granché da interpretare: è lei, nessun altro. E l’amore che il poeta prova non ha niente a che vedere con la bellezza, Montale non ci dà neanche la possibilità di immaginare Drusilla, quello che gli interessa è mostrarci di aver perso una persona solida, un punto fermo, un’amica, una compagna di vita, prima di un’amante. E, forse, è così che si dovrebbe amare. Perché se l’innamoramento è una condizione leggera, passionale e instabile, l’Amore è disinteressato, completo, compatto, senza sfumature. E questo, senza ombra di dubbio, è Amore. Uno dei più veri di cui si sia mai scritto, sicuramente l’unico che tutti vorrebbero provare in prima persona, ancora prima che riceverlo.
Abbiamo letto e riletto questo articolo, pensato a una conclusione, immaginato cosa potesse dare realmente a chi legge. Il risultato ci sembra un minestrone: gustoso, caldo, dolce e accogliente ma comunque un minestrone, disordinato e non così saziante. La verità è che bisognerebbe sempre iniettare un po’ di disinteresse dentro di sé, prima di trattare un argomento. Guardare un’opera dall’alto, farla propria, metabolizzarla e soprattutto impedirle di emozionarci. Pena, il suddetto minestrone; primogenito della totale, presuntuosa ed egoistica soggettivizzazione del testo. Non ci siamo riusciti, forse. Forse abbiamo sbagliato argomento, avremmo dovuto attenerci a qualcosa di meno importante per noi. Ci abbiamo provato, comunque. Consapevoli di aver miseramente fallito nel tentativo di mostrarci disinteressati, abbiamo optato per l’estremo opposto: un totale interessamento, il sistematico abbassamento della propria persona di fronte a un’opera, un’esplosione di emozioni. Non avremmo potuto fare altrimenti. E, purtroppo o per fortuna, abbiamo fallito anche in questo. Perché il risultato è che la poesia rimane lì con la sua universalità e ogni volta che la leggiamo non possiamo fare a meno di immaginarci solo lei, la donna per cui è scritta, la compagna di una vita, l’amore di un’intera esistenza: per chi scrive e per chi legge.