Il mondo è diventato un’abbuffata. Come ci ricordava anche Marco Ferreri nel suo grottesco capolavoro di regia del 1973, la specie umana ha tramutato la necessità biologica del mangiare, del nutrirsi in generale, in quella ossessiva del consumare, portandola alle sue più estreme conseguenze e tragiche conclusioni. Il consumo finisce per riversarsi su sé stesso, si fa auto-consumo e, infine, parodia dell’animalità. Guardando ai processi geopolitici dell’ultimo secolo, è chiara la crescente mania dell’uomo per l’allargamento smisurato dei propri confini, che in fondo non sono altro che quelli del corpo e del suo farsi vorace spugna (come il Mr. Creosote dei Monty Python). L’arte può essere un tentativo di far fronte a queste voglie nichiliste e ciniche della società umana. È questo l’obiettivo che si era posto Benjamin John Power, nelle vesti del suo moniker Blanck Mass, per la composizione del suo ultimo album, World Eater.
Uscito a marzo per la Sacred Bones, il sette-tracce ci rivela un Power che ha voluto sfiorare l’epica elettronica, l’aggressiva magniloquenza dei bassi monolitici e delle cavalcate industriali. Il passo avanti rispetto al precedente Dumb Flesh (2015) è subdolo, le sonorità tipiche della sua techno astratta sono tutt’altro che scomparse. Eppure, rispetto ai suoi altri lavori, includendo anche quelli creati come metà del duo Fuck Buttons, World Eater assume delle qualità più primitive, essenziali, e proprio per questo che restituiscono al meglio l’intento del musicista britannico.
La quieta nenia da carosello di “John Doe’s Carnival of Error” ci introduce nell’immaginario ripetitivo di chi vive come un nessuno, provando una infantile e imbarazzata ilarità quando messo di fronte agli errori che sta commettendo e che continuerà a commettere. Il ritmo accelera sino a farsi vorticoso, lasciandoci in balìa della successiva “Rhesus Negative”, violenta epifania della profonda animalità dell’uomo. L’incedere marziale del beat non si arresta neanche per uno dei nove minuti attraverso cui la traccia si dipana.
Blanck Mass scopre da subito i denti, ma il crescendo ossessivo che abbiamo appena attraversato è finalizzato al raggiungimento della quiete, di una preghiera d’amore: “Please” è un dialogo tra voci distorte e disperate, che si cercano, intrecciandosi ai bassi eterei e rallentati, ai synth che appaiono e scompaiono. Quando Power ha detto di essersi avvicinato, con questo album, alla scrittura di “actual love songs”, non era senza motivo.
Il silenzio con cui si conclude la traccia è però subito interrotto dal beat pervasivo di “The Rat”, creatura che è, in un certo senso, archetipo del consumo smodato e disgustoso. I synth, quasi volessero bilanciare le sforbiciate dei riverberi di chitarra e le aggressive drum machine, assumono tonalità allegre e spedite, in una corsa che sfrenata che sembra un gioco: è un ritorno al carosello euforico del consumo, ma nella forma ben più densa del ratto-uomo, che sguscia da un buco all’altro senza sosta.
Il “divoratore di mondi” ci conduce in un’altra avventura epica con “Silence Treatment”, forse summa più completa della carriera musicale di Power. Fa seguito il trittico “Minnesota/Eas Fors/Naked”, che giustappone prima dei droni estranianti a dei gorgoglii biomeccanici, per poi lasciare che il drone organistico si sviluppi in autonomia, come una cascata, fino a lasciare la scena all’ultimo dei tre movimenti, in cui Power si spoglia della veste cupa indossata nel resto dell’album, per passare alla serenità di un beat in salsa ipnagogica, reminiscenza del migliore Washed Out.
La magnifica abilità compositiva di Power stupisce un’ultima volta, nella conclusiva “Hive Mind”, in cui ogni perturbazione è abbandonata e il “livello zero” dei processi cerebrali è raggiunto: l’uomo si è completato infine nell’Altro, avendo compreso la sua folle impresa di divorarlo, imparando la lezione che David Foster Wallace volle dare col suo personaggio di Mr. Bombardini. Col suo progetto Blanck Mass, Power ha testato i limiti della produzione elettronica, come delle sue capacità, riuscendo a creare un’opera che non solo si inserisce nell’odierna corrente dello sperimentalismo post-club, ma ne esprime alla perfezione le necessità espressive e le preoccupazioni esistenziali.