Roma.
E’ il 1974.
Già da qualche anno l’aria che si respira, il cibo che si mangia, le lacrime che si versano, tutto, tutto sa di piombo.
Rivoluzione, e un ottimismo a tratti spregiudicato, forzato e quasi amaro, entrano in ogni piazza, casa o stanza.
La letteratura del dopoguerra ormai è passata e il neorealismo è solo un ricordo da tacere; le discussioni di penna si concentrano su tutt’altro: Calvino intreccia già da qualche anno i fili di “Se una notte di inverno un viaggiatore”, interessato alla scrittura labirintica d’oltremare di Borges, e Pasolini si immerge nel suo “Petrolio”
Perchè, allora, Elsa Morante sceglie di dare alle stampe, proprio nell’edizione tascabile della collana GliStruzzi (Enaudi) e proprio a prezzo ridotto, La Storia?
Un romanzo controcorrente e dal forte contenuto ideologico, un romanzo che fece tanto successo nelle sue innumerevoli ristampe quanto destó scalpore e generò astio nei confronti della scrittrice romana.
Cesare Garboli ci racconta:
“La Morante fu accusata di speculare sulla sofferenza, di vendere disperazione, di propagare pessimismo”
Ci volle del tempo perchè si iniziasse a parlare di quella che era la vera ispirazione della scrittrice, fortemente anarchica e popolare, che non si proponeva di denunciare la Grande Storia, le dinamiche politiche note, ma la Piccola Storia, quella delle vittime ignorate, delle “cavie che non sanno il perchè della loro morte”.
“ Por el analfabeto a quien escribo”
Questa è la dedica di un romanzo pieno di voci, quasi di sussurri, pieno di storie diverse al punto che il plot, sembra non esistere.
Tutto si basa su digressioni, antefatti, un immaginario che tenta in ogni modo di essere legittimato, proprio per dare voce ai non-ascoltati, ma che nello stesso tempo lascia sfumate e in sospeso la maggiorparte delle storie nelle quali un secondo prima l’abile mano di Elsa ci aveva avvolto.
Digressioni a volte insignificanti, a volte determinanti, ma sempre necessarie all’architettura del testo.
La digressione sulla morte di Mariulina è quasi un dipinto.
Nero, nero, nella brutalità e nella violenza del fatale incontro con i tedeschi, e a tratti colore, nell’ingenuità degli sguardi di chi combatte una guerra che non conosce.
Il fatto violento non ci viene descritto, ci viene posta un’immagine davanti, ed è attraverso l’immagine che la pacata e quasi rassegnata voce della Morante narra.
La digressione sulla morte di Giovannino, personaggio conosciuto solo tramite casualità di incontri, è uno struggente capolavoro.
Nel momento freddo e spietato del suo ultimo respiro, in una Russia che di caldo ha solo il colore, Giovannino si sdoppia.
Dalla realtà si passa all’allucinazione e dall’allucinazione alla morte.
Ma in quel passaggio, in quel breve e lunghissimo momento, il corpo si allontana dal corpo e diventa sensazioni e ricordi, torna bambino.
“E soddisfatto si piega nella sua posa preferita di quando sta nel letto: coi ginocchi che quasi gli toccano la testa, rannicchiato in un modo che nel materasso gli si scava sotto una cuccia molto comoda; e mentre lui si rannicchia le foglie dentro il materasso fanno un fruscio come stormissero, d’estate e d’inverno.
Questa è la posizione che lui sempre ha preso per dormire, da piccolo, e da ragazzino, e da grande; però ogni notte al momento che si rannicchia in questo modo, gli sembra di tornare piccolo. E invero, piccoli, cresciuti o grandi, giovani, anziani o vecchi, al buio si è tutti uguali.
Buona notte, Biondino.”
Dalle prime righe è un romanzo che ci tiene legati alle sue pagine in una continua antifrasi, dove toni drammatici e toni euforici si alternano senza sosta. Fino alla fine, dove l’euforia si perde, fino a sparire e a trasformare La Storia in un romanzo di requiem.
“Muerto nino, muerto mio.
Nadie nos siente en la tierra
donde haces caliente el frio”