Le campane battono sei colpi di metallo;
lo spirito è irto
i campi smeraldo
i cieli
di ametista,
io non so che farò
dove andrò
e senza chi
il tempo si è fatto siderale
e lo spazio di iperuranio
i bivi stanno lì,
con i loro trampoli in legno
a deridere il passante dubbioso
indicando “per di qua”
“per di là”;
i sentieri svaniscono
si fanno di polvere e scompaiono
per riapparire a loro piacimento
da un’altra parte
sottosopra
interrotti a metà
intersecati gli uni agli altri
creando fondali che non esistono in nessun luogo
o per non riapparire affatto
in un gioco di specchi
che si fa scherno della passante confusa.
C’è vento,
non sanno i due avventurieri
che di tutte le strade simultaneamente possibili
soltanto una biforcazione li farà incontrare
Le campane battono sette colpi di metallo;
le ombre si allungano
sul sagrato di pietra si accalcano
le anime pie della messa
“Sai che il fratello della Mariella c’ha un amico
che è cugino di quinto grado della Pinuccia e c’ha detto
che la Pinuccia è andata dall’amica di un’amica di Maurizio…”
nel profilo solare
la luna si accenna audace
di traverso e storta
grida battaglia
agli ultimi raggi della sera
sbandiera spade stendardi e vessilli di guerra
strepitando
schiera fanti e cavalieri,
i suoi ululati e i suoi improperi
in tutte le lingue del mondo
divertono e inquietano Ester,
nascosta nell’altra ala della casa
tra i nidi di vespe e le tele dei ragni
rannicchiata dietro al vecchio bancone del panificio chiuso da anni
intreccia i fili lunghissimi dei suoi capelli marini
bluastri e violacei
che la Mariella e la Pinuccia vogliono tagliare via,
è l’unica Ester a sentire le dannazioni
in tutte le lingue del mondo
della luna e a comprenderle,
senza saperne il perché
Le campane battono otto colpi di metallo;
Ester sussulta
e un ragno
perdendo il punto del crocicchio che sta intessendo
si infuria
Otto e mezzo i colpi di metallo.
Piegata in riva al fiume vorace
la più bella del mondo
piange lacrime dorate
sul ritratto ingiallito
di un ragazzo morto da un secolo e più
che le ha rubato il cuore,
mentre dietro alla sua schiena
la fila dei pretendenti
ricalca il corso del fiume,
di paese in paese
fin lungo la foce a estuario
fino a valle
fino all’emissario
e all’immissario
che sgorga da una cascata
che nasce da una sorgente
che scava la pelle del ghiacciaio
dove attendono
le statue di ghiaccio
con gli arti rachitici
e mazzi di rose di cristallo,
dei suoi ultimi pretendenti
Intanto, all’ombra di un ciliegio già sfiorito
su un’amaca di iuta
sopito, sta il ragazzo dei giornali,
un ciuffo d’erba tra le labbra accennate
gli occhi verdi e semichiusi
riposano le fantasie dell’estate,
dorme come un cane
vigile e all’erta
in attesa del primo frutto
che cadrà dal ciliegio,
fosse una questione
di vita
o di morte
Le campane battono nove colpi di metallo;
la terra compie il suo moto di rivoluzione
io brancolo a tentoni sull’asse di rotazione terrestre
intenta a leggere la mano
a interpretarne le linee
per disvelare i futuri,
ora sdraiata allo Zenit
ora spinta al Nadir
nel maremoto dei giorni,
tra i giochi zingari degli astri arcani,
mi guardano, e tacciono
Ancora non so
se andare nomade
o restare,
ma si sta bene a cavallo della luna storta
che ha vinto la sua guerriglia solare,
da qui posso scorgere le sabbie d’Egitto
scosse dall’alito di una tempesta
che imporpora e leviga le dune dei berberi;
tra poche ore, quando i tuareg si sveglieranno
per dissetarsi al miraggio di un’oasi
troveranno il deserto
a suo modo
mutato
dall’alito di una tempesta vermiglio,
ma credendo si tratti di un’illusione
opera
del ventre
crudele
del miraggio
sorrideranno, e ancora
nel maremoto dei giorni
vanno avanti a navigare
senza sapere che il deserto
a suo modo
è stato mutilato
Le campane battono dieci colpi di metallo;
le unghie di un vento
figlio della tempesta di porpora
hanno graffiato l’Oriente e i suoi solchi.
Sorvolo il Mar Morto
di alghe e fanghi verdastri,
distesi a pancia in su
con i corpi avorio
come tante meduse
galleggiano un migliaio di suicidi,
si tengono per mano
e cantano
suonano arpe e conchiglie
lavorano la creta, accendono fuochi,
mentre sul lido dei vivi
i loro cari, più morti di loro
ancora li piangono,
maledicendoli;
nell’intreccio di braccia e gambe che si avvinghiano felici
sulla superficie gorgogliante
si intravedono un viandante e una viandante,
non più dubbiosi
non più confusi
Le campane battono undici colpi di metallo;
la figlia della luna scrive poesie d’amore
per il ragazzo analfabeta
che vende i giornali,
intanto pettina i fili bluastri e violacei
dei suoi lunghissimi capelli marini
che la Mariella e la Pinuccia hanno smesso di tagliare,
rassegnate a vederli ricrescere
di metri interminabili
nei notturni di plenilunio
Le campane battono dodici colpi di metallo;
io non so ancora
se andare nomade
o restare,
e indugio, sull’asse di rotazione terrestre
contemplando
i campi
i cieli
il tempo
lo spirito e lo spazio
che un destino di porpora,
fratello di sangue della tempesta
di sabbia
che vidi in una notte egiziana,
ha cambiato
e continua a squassare,
seguendo il ritmo delle
campane sonanti
che vanno avanti a battere
colpi su colpi di metallo.
Elena Cafarelli