Era il 1963, e gli Stati Uniti erano nel pieno della lotta per l’integrazione razziale: James Baldwin, autore rinomato, fece una semplice, quanto provocatoria, domanda alla popolazione bianca statunitense.
Chiese loro cioè di provare a tornare alle radici del problema dei neri, “the negro problem”, chiedendosi per quale motivo sia stato necessario creare il mito del “negro”. Cosa ha spinto la maggioranza bianca ad isolare i neri, portando, in ultima analisi, alla loro segregazione e ghettizzazione? Sono passati ormai 54 anni da quando l’autore pose questa domanda, eppure mai come ora, di fronte ad esempio al movimento dei Black Lives Matter, le sue parole hanno una risonanza, ed un’importanza capitale. Ed è proprio per questo che il regista Raoul Peck ha voluto farle riscoprire a tutta una generazione tramite I am not your negro.
Il documentario- candidato all’Oscar di quest’anno- ripropone la riflessione di James Baldwin nel suo romanzo “Remember this House”, in cui Baldwin si era prefissato di analizzare e raccontare il problema della razza negli Stati Uniti. Per fare ciò avrebbe raccontato di Martin Luther King, Malcolm X e Medgar Evers, suoi amici e uomini diversi, che con metodi diversi combatterono per la stessa causa, e per essa furono ugualmente assassinati non appena o poco prima dei quarantanni (Malcolm X ne aveva precisamente 40 anni, King 39 ed Evers 38). Tramite le loro idee, le loro azioni ed interazioni, Baldwin avrebbe spiegato e riconciliato le posizioni dei tre, mostrando non solo quali fossero le ragioni alla base della lotta, ma facendo riflettere sulla stessa natura e modo di pensare del grande paese in cui vivevano, gli Stati Uniti d’America.
Il lavoro di Baldwin è rimasto però incompleto, e così Peck cerca di dargli voce, completandolo come se fosse Baldwin stesso a terminarlo. L’intero documentario è dunque narrato dal punto di vista di Baldwin, come se fosse effettivamente la sua opera: sentiamo o la sua stessa voce, grazie a video d’archivio di sue interviste ed interventi, o la voce di Samuel L. Jackson, che legge con voce solenne- quasi irriconoscibile se si pensa a Pulp Fiction- le uniche trenta pagine di Remember this House che furono completate.
Poiché direttamente ed indirettamente è Baldwin il narratore, egli è indicato come autore della sceneggiatura del film, alla quale invece il regista partecipa puramente- ed efficacemente- per associazione di idee. Peck infatti veicola al meglio il messaggio dell’autore tramite la scelta delle foto e video d’archivio, ma anche tramite scene tratte da film, che dimostrano come il mito dei neri inventato dai bianchi fosse veramente radicato anche nello show business. Tramite insomma un ampio repertorio che palesa la lunga gestazione dell’opera, e la precisa documentazione per la sua realizzazione, Peck riesce a dare un efficace supporto visivo alle idee dell’autore e al suo racconto sulle tre figure più importanti del movimento per i diritti civili.
Il film però non si limita a presentare l’idea di Baldwin legandola agli anni Sessanta, al momento in cui incontrò i protagonisti dei Movimento per i Diritti Civili e fu testimone della loro importanza e azioni. Le scelte di Peck evidenziano come le idee e riflessioni di Baldwin siano ancora attuali, ed anzi più che mai necessarie. Leggere e ascoltare Baldwin getta luce sulle motivazioni e le dinamiche di quello che sta succedendo ora negli Stati Uniti. E così, tra le pubblicità e e interviste degli anni ’60, i film degli anni ’20 e le foto della lotta per i diritti civili, veniamo colpiti all’improvviso da scene delle rivolte del 2014; foto dei ragazzi, i giovanissimi, morti per mano della polizia, e altre immagini che tutti abbiamo visto in televisione recentemente.
La riflessione di Baldwin infatti è così puntuale, pungente ma anche piena di stanchezza, da essere attuale, tanto che, come sottolinea il Rolling Stones, alcune sue parole potrebbero essere pronunciate a proposito della necessità del movimento Black Lives Matter:
“Ci sono giorni, questo è uno di questi, quando ti chiedi quale sia il tuo ruolo in questo paese e quale sia il tuo futuro in esso. Come precisamente riconcilierai te tesso e la situazione qui, e come comunicherai alla vasta, incurante, sconsiderata, crudele maggioranza bianca che tu sei qui. Sono terrificato dall’apatia morale- la morte del cuore- che sta avvenendo nel mio paese. Queste persone si sono illuse per così tanto tempo che non pensano davvero che io sia umano”
Come però il pensiero di Baldwin, il documentario è lungi dall’essere un manifesto contro i bianchi, che lo stesso Baldwin dichiara di non aver mai considerato come puramente crudeli e malvagi. Il documentario è se mai un ritratto della situazione americana che cerca di gettare luce sulle dinamiche della relazione tra bianchi e neri, le radici di tale relazione. Per questo la domanda iniziale di Baldwin mira a far riflettere i bianchi sul perché i neri protestino, sul perché richiedano giustizia quando apparentemente sembri esserci equità. Tutti dobbiamo chiederci come si sia arrivati ad un certo punto, e cosa abbia portato la maggioranza a creare un mito negativo e degradante di una minoranza, considerata inferiore per secoli. Il popolo americano deve prendere in mano il suo destino, partendo da questa domanda:
“Quello che devono fare le persone bianche è cercare di trovare nei loro cuori il motivo per cui, in primo luogo, è stato necessario avere un negro. Perché io non sono un negro, sono un uomo, ma se pensi che io sia un negro, vuol dire che ne hai bisogno… Se io non sono un negro, e voi l’avete inventato- voi, i bianchi- allora dovete scoprire perché. E il futuro del paese dipende da questo, se sara capace o meno di fare questa domanda”
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