Il primo sguardo di mia madre e poi, subito dopo, quello di mio padre. L’atavico liquido in cui sono stato immerso per nove mesi, lavato via da un’infermiera frettolosa. Come si è permessa? Come ha potuto eliminare tutte le tracce delle mie origini così, con quei gesti tanto abituali. Una sciacquatina e via, la mia copertura primordiale non c’era più; fu sostituita dallo sguardo dei miei genitori, e poi da quello dei miei fratelli maggiori. Nonni, zii, cugini, parenti di ogni grado mi hanno rivestito dei loro occhi, tanto che se ancora oggi mi sdraio raggomitolandomi sul letto riesco a distinguere tutte le diverse intensità di quelle attenzioni sul mio corpo.
«Secondo me, tu “semplicemente” pensi troppo al passato» mi ha detto Michele, il mio migliore amico, una volta. Sento la sua voce ripetere queste parole tutte le volte che la mia mente si sofferma effettivamente su cose accadute tempo fa. Il punto è che non è che penso al passato… lo sento. Io lo sento sulla mia pelle, lo vivo in continuazione tanto da renderlo presente più del presente stesso. È che mi rimane addosso, appiccicato, con tutta la malinconia che questo comporta.
Quando ero piccolino mi capitava di ricordare il volto dell’infermiera che mi aveva ripulito alla perfezione, senza permettermi di assaporare appieno quella sensazione di protezione che avevo provato per nove mesi nell’utero di mia madre, anche fuori nel mondo. E così mi aveva abbandonato nudo in un posto che non conoscevo, tra persone altrettanto sconosciute, senza pietà. Quando la ricordavo correvo in bagno piangendo disperato e mi lavavo gli occhi con il sapone, grattando fortissimo le palpebre, sperando che quell’immagine terribile si levasse dalla mia vista. I miei occhi diventavano rosso sangue, e mi sembra tuttora assurdo che io non li abbia persi in qualche modo.
Quando mi accorgevo che non funzionava, mi strappavo di dosso i vestiti e mi gettavo nella vasca, aprendo il getto dell’acqua fredda e con la spugna stracolma di sapone mi fregavo tutto il corpo, i gomiti, la pelle dietro le ginocchia, torace, piedi per lavarmi di dosso quella sensazione di terrore che l’ostetrica aveva lasciato sul mio corpo togliendomi la mia protezione. Allo stesso modo come mi aveva ripulito lei, avrei potuto farlo anche io. Ma non funzionava, niente funzionava. Piangevo a squarciagola, così tanto che molte volte i vicini erano venuti a bussare alla porta credendo che mi stessero facendo del male. Era come se mi stessero squarciando. Un’onda di terrore allo stato puro si riversava in me e sentivo tutto: i primi sguardi sul mio corpo nudo, il senso di perdita dopo la caduta del primo dentino e la conseguente paura di crescere, il dolore del braccio rotto, i litigi dei miei genitori, le umiliazioni a scuola quando mi ero fatto la pipì addosso.
Mia mamma correva in bagno spaventata. Ne era abituata ma i suoi occhi erano sempre pieni di dolore nel vedermi in quello stato. «Tesoro che succede? Ancora quella sensazione? Cerca di stare tranquillo amore, sei solo molto sensibile e le cose che ti sono successe ti hanno segnato di più di quanto non abbiano fatto ad altri bambini; capita a tutti di essere tristi per qualcosa che è accaduto e che ha fatto male!». Tentava di abbracciarmi, ma io tutto bagnato mi divincolavo. «No mamma io non sono triste, io sono sporco di quello che è stato! Lo sto vivendo ora, tutto insieme, come se fosse la prima volta e non riesco a lavarlo via!».
Ma lei non poteva capire, nessuno poteva farlo. Per tutti io “semplicemente” pensavo troppo al passato. Ogni momento si sommava agli altri senza che mai niente andasse perduto. Nei primi 25 anni della mia vita sono stato un maniaco dell’igiene. Mi lavavo quattro o cinque volte al giorno quando riuscivo, grattando forte ogni centimetro della mia pelle. Ossessivo-compulsivo, mi dicevano. Stronzate! Pensavo. La mia non era un’ossessione era un tentativo fallimentare di proteggermi.
Realizzai una sera, sotto la doccia che tutto quel sapone non serviva a niente. Non c’era modo per me di liberarmi da quella sensazione di sporcizia che avvertivo sotto la pelle. Cosa avrei dovuto fare? Decisi che non mi sarei lavato più, mai più. Se davvero tutto, ogni accadimento, doveva restare indelebile come un tatuaggio sottocutaneo, allora che ci restasse con tutta la forza e tutta la purezza con il quale era avvenuto nel suo tempo. «Ho il numero di uno psicologo per te» così mi disse Michele quando gli parlai al telefono della mia decisione. «Finché si trattava di una “semplice” ossessione per la pulizia potevo ancora capire, ma stavolta temo si tratti di qualcosa di più grave… comincio a pensare che tu sia pazzo!». Non ha mai avuto particolare tatto, Michele.
Mia mamma era venuta a trovarmi a casa a distanza di tre settimane dall’ultima volta in cui ero stato in doccia. Si mise a piangere. Il ricordo del suo dolore ce l’ho sulla spalla destra, è lì e non si sposta, stabile e fisso e forte. Vicino, la fastidiosa tristezza dell’amore perduto. La mia unica storia d’amore sull’attaccatura del braccio, il ricordo dei suoi occhi, di come mi guardava, ma soprattutto la sensazione di come non mi guarderà più. Più sotto, vicino al gomito, l’amicizia delusa di Michele. Sotto al cuore la morte di mio padre.
Non mi lavo via più niente, lascio che tutto rimanga lì dove ha deciso di restare: il profumo del mare sotto le narici, il perdersi insieme nel fare l’amore sotto la pancia, la solitudine adolescenziale sui polsi, la morbidezza del mio primo cucciolo sotto i polpastrelli. Sono solo, ma mai veramente perché Michele, Sara, la mia ex fidanzata, mio padre, mia madre sono con me, con le loro risate, quando siamo stati felici. Esattamente sulla fronte tra l’attaccatura dei capelli e i primi peli di sopracciglia, nella vastità di questo spazio si estende il ricordo che mi salva da tutti gli altri. Siamo insieme, tutte le persone più importanti della mia vita: una cascina in mezzo alla campagna, estate, verso la fine; è quasi sera e la temperatura è fantastica; «Il momento più bello della giornata» dice sempre papà; c’è un po’ di musica, c’è tanto cibo, tutti ridono e si divertono e per un secondo, un istante soltanto, dimentico tutto e mi sento pulito. Non sto vivendo più tutti gli altri momenti della mia vita, ma vivo solo e soltanto proprio questo nel quale sono immerso. La libertà: essere qui, ora e basta.
Adesso, adesso che vivo dopo quella sera perfetta della mia vita il mio scopo è quello di fare in modo che quel ricordo domini sugli altri. Lì scappo, lì fuggo sporcandomi il corpo di quella libertà infinita e istantanea. Quella sera mio padre mi guardò negli occhi e vedendomi per la prima volta nella mia vita, felice, si avvicinò mentre tutti parlavano, tirò fuori dal suo taschino un biglietto e ne lesse il contenuto, solo a me: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
«È Italo Calvino, Le città invisibili, lo riconosco!» dissi.
«Fai durare questo momento, fai che sia più forte degli altri, e staremo sempre insieme, sempre felici, sempre qui, in questa cascina, di quest’estate; il tempo non è nient’altro che una scelta.»
«Grazie papà!».
Lo sto facendo durare nella mia carne sporca. Sono libero. O forse sono “semplicemente” pazzo.
A cura di Federica Tosadori