Kelly Lee Owens: beat onirici e grazie ultramondane

Nell’elettronica – come in ogni altro genere musicale o come anche in ogni forma artistica – vivono in parallelo coloro che innovano, che spingono e forzano i paradigmi della musica verso nuove sponde e, poi, quelli che di un’epoca culturale sono i “custodi”, in un certo senso gli emblemi stilistici; ovvero, quei musicisti che raccolgono le tendenze innovative del presente o del recente passato e le incanalano alla perfezione nella propria musica, risultando così una sorta di filtro per ciò che rappresenta il meglio che un determinato genere, o sotto-genere, ha da offrire. Tralasciamo il fatto che, nel considerare queste due categorie, abbia eliso del tutto quella grande fetta di artisti che, per sua colpa o sfortuna, non riesce a produrre musica di qualità, né nel primo né nel secondo senso. Kelly Lee Owens, per sua grande fortuna e per la sua grande abilità di produttrice, rientra nella seconda categoria.

Lo scorso marzo la producer gallese ha rilasciato il suo omonimo LP di debutto, con l’etichetta norvegese Smalltown Supersound, portando a compimento le attese che avevano creato i due singoli “Anxi.” e “CBM”. Andiamo con ordine, dato che un lavoro così ben confezionato, com’è l’album della Owens, ha bisogno di essere esplorato con calma, seguendo il ritmo docile della sua techno.

KLO comincia nell’etere. “S.O.” ci introduce in un ambiente in cui le eco vocali, che ricordano vagamente lo stile della prima Fka Twigs, rimangono sospese su di un beat lento ed essenziale, come d’altronde sarà per gran parte il resto dell’album. Lo si capisce subito, dato che la traccia successiva, “Arthur”, non è altro che un piccolo ma brillante tributo a quel genio di musicista che fu Arthur Russell, pioniere di un ambient-pop che riemerge appieno dalle reiterazioni armoniche intessute dalla Owens. E non abbiamo neanche il tempo per fuoriuscire da questo sogno elettronico, che veniamo trascinati in una delle gemme assolute della minimal-techno contemporanea: “Anxi.”, primo singolo estratto dall’opera, nonché collaborazione con la musicista Jenny Hval, con la quale Owens forma una sinergia creativa come poche se ne sono viste in tempi recenti.

“Anxi.” comincia avvolgendoci nell’intreccio vocale delle due producer, per poi scivolare improvvisamente in un beat tanto semplice quanto trascinante, costruito con una precisione che farebbe invidia alle migliori produzioni dell’isola albionica, patria del genere in cui la Owens si avventura con questo album. Dal beat impulsivo torniamo alle sinfonie, con “Lucid”, traccia che trattiene più influenze dal dream-pop (come quello degli Orcas) che dalla techno. Ma è solo un momento, perché con “Evolution” tornano a farsi sentire i bassi, le sonorità tipiche della ambient-techno, costringendoci nuovamente ad adattarci al ritmo che la Owens imposta di volta in volta per le sue canzoni. La non linearità ritmica è uno degli elementi che fanno di KLO un album da non sottovalutare nel panorama odierno della techno.

In “Bird” sono più che vivide le ottime influenze dei tintinnii di Pantha Du Prince, mentre “Throwing Lines” purtroppo rimane sciapa e, per questo, direi che si tratta forse della traccia più debole dell’LP, non minandone comunque la qualità complessiva. Soprattutto perché a seguire troviamo il secondo dei singoli che ne avevano anticipato l’uscita, “CBM”, che sta per “the Colours are Beating in Motion”, frase ripetuta come fosse un mantra dalla Owens, al di sopra di un beat che potremmo definire ossessivo; in particolare, dalla seconda metà la traccia si lancia in un altro assalto di pura essenzialità techno.

Sono però le corde distorte che aprono “Keep Walking”, sciamanico augurio avvolto in uno spazio sintetico, a dimostrare una volta per tutte quanto valgano le produzioni della Owens, in termini non solo di cognizione musicale e culturale, ma anche per quanto riguarda la sua abilità nell’intessere canzoni che, lungi dall’essere meri pezzi da discoteca, riescono ad evocare un solido bagaglio artistico, la cui ricchezza sorprende dato che, dopotutto, si tratta pur sempre di un’esordiente.

La prova finale delle sue capacità compositive giunge con “8”, con un conclusivo viaggio pseudo-spirituale infarcito di sitar e droni. È una ipnotica parabola che, nel raggiungere il suo apice, fa comprendere a chi ascolta cosa significa essere sospesi nel tempo e, al contempo, muoversi attraverso esso, in uno sdoppiamento sublime delle proprie percezioni, in una ripetizione che, mai come con Kelly Lee Owens, diventa virtuosa e cangiante.


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