Un uomo è fatto di carne e di princìpi. Questa sentenza è mia, non cercatela, se aveste pensato di farlo. Così era anche Cesare Pavese. Sarei un superbo a dirlo, ma la lettura dei suoi diari ci permette di dirlo, ce lo fa conoscere come si conosce un amico. Quanta sofferenza, quanta umanità, quanta voglia di vivere. È chi si uccide come lui fece che ha più voglia di vivere di tutti. Quando è tolto tutto ciò che rende vita la vita a che scopo restarci ancora? Se non si può essere ciò che si vuole essere e il mondo si ostina a non essere quello che noi vorremmo è giusto salutarlo per l’ultima volta. Un suicidio alla Ortis, un suicidio di chi prima di essere schiuma, è stato indomabile onda, parafrasando le sue stesse parole. Onda che è stata domata e sconfitta. Il mare, immagine che torna spesso parlando di Connie, colei che fece perire l’estremo inganno, colei venuta dal mare (13 Agosto ’50).
Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono (17 Agosto ’50). Pavese poco prima di morire aveva vinto il Premio Strega, era re nel suo mestiere di scrittore, ma non riusciva ad esserlo in quello di vivere. Il trionfo letterario poco valeva poiché a quel trionfo manca la carne, il sangue, la vita. Ed erano tutto ciò che lui aveva sempre cercato. Nelle sue opere creò piccoli miti rurali, rese natura a-storica i suoi dilemmi interiori e la realtà intorno a lui. Tentò di immobilizzare la vita e capirla nella sua realtà demoniaca ed oscura, riuscendoci e fallendo, come naturale. Ma questa vita non riuscì mai a viverla. Questi tentativi fallirono tutti uno dopo l’altro, in una sequenza crudele ed incomprensibile. Era un uomo buono e gentile, come ricorda Natalia Ginzburg in Lessico famigliare, ma questo poco gli valse.
Amore e morte, un’identità che lo ossessionerà negli ultimi mesi della sua vita, con il ritorno continuo dei due elementi uno accanto all’altro, in un turbinante scambio di valori e sensi, difficili da comprendere a mente fredda, ma veri nei gorghi dell’anima. Amore e morte come affermazione e negazione di sé. Altalenanti i ricordi degli ultimi giorni, fra slanci apparentemente vitali e conferme del fatale proposito: la risposta è una sola: suicidio (27 Maggio ’50). Ma non fu l’amore in sé a portare la pistola alle sue tempie, fu l’agnizione della sua nullità senza la possibilità di amare, senza la possibilità di esistere come si vuole esistere, unica possibilità reale dell’esistenza, poiché ogni esistenza che non è come la si vuole è una morte a occhi aperti.
Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla. (25 Marzo ’50). Parole celeberrime, scritte insieme alla poesia con la quale ci salutiamo, nella raccolta pubblicata postuma e dedicata a lei, quella Connie che l’abbandonò, il suo “viso di primavera”.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.