«Se chiudiamo gli occhi, ciò che vediamo è uno schermo grigio o nero. Quando in meditazione, quel rettangolo scuro iniziò a essere attraversato verticalmente da un taglio di luce argentea e lunare […], non potei non associarlo ai “tagli” di Fontana e a ciò che egli dice nel Manifesto dello Spazialismo».
Non ho alcuna intenzione di invadere la sezione di poesia, né tantomeno quella di arte; ho incontrato Cos’è “poesia” di Giulia Niccolai per caso e sì, parla di poesia – vi sono anche numerosi riferimenti artistici –, ma non mi soffermerò molto sugli aspetti che qui non mi competono. Il libricino della Niccolai è edito da Del Verri nel 2012, ha la copertina tutta rossa e il nome dell’autrice e il titolo sono posti in alto a sinistra, in piccolo. È una raccolta di undici saggi che si soffermano a riflettere sul valore e sul significato della poesia.
Certo non mi aspettavo un’opera metodologica e manualistica sulla poesia (specie in appena 94 pagine), ma men che meno mi ero preparato a leggere una narrazione così fluida e divertente – qualcuno, leggendo il libro, potrebbe considerarmi un emerito idiota nell’usare il termine divertente per questo libro, tuttavia chi ha stretto un certo rapporto con la poesia credo possa concordare che il racconto della Niccolai faccia sorridere di complicità. Forse un titolo più appropriato sarebbe stato Cos’è “poesia” per Giulia Niccolai, ma d’altronde la poetessa ci mette subito in guardia sul carattere dell’opera che abbiamo tra le mani. Esordisce: «Ciò che è poesia per uno, non lo è necessariamente per un altro» e poco più avanti: «ovviamente è mia intenzione spiegare cosa è poesia per me». Insomma, mi sono ritrovato a leggere questo libro non tanto come un saggio che potesse illuminarmi sul significato recondito della poesia, quanto più come il racconto di una bella storia in cui la poesia è protagonista.
Nelle pagine di Cos’è “poesia”, dunque, non si trova l’erudizione di una poetessa che ha vissuto in pieno la seconda frenetica metà del Novecento, piuttosto la vita stessa e la memoria, il piacere di raccontare e di riflettere su un argomento tanto complicato, quanto reso semplice e piacevole dalla leggerezza e dalla desacralizzazione con il quale viene affrontato. Perché la Niccolai ci accompagna con il gusto dell’aneddoto attraverso una sfilza di situazioni, ricordi, opere d’arte, responsabili di aver suscitato in lei quei cambiamenti e quelle sensazioni che tutti, prima o poi, incontrano a contatto con la poesia. Ad esempio, parlando di Pascoli, afferma: «Evidentemente alle medie il verso del Pascoli “mi ride al cuore (o piange) Severino” deve avermi particolarmente colpito, forse perché non riuscivo a capire come il cuore potesse ridere, o piangere. Non ero nemmeno consapevole di ricordarlo (il solo verso, con il successivo, di tutta la poesia), ma è affiorato di colpo, come per una sua paziente rivalsa, dopo cinquant’anni, quando una quindicina di anni fa ebbi la chiarissima percezione del riso che mi saliva dal cuore». Sembra quasi che l’autrice abbia raccolto qualche stralcio del suo diario personale per rispondere a un interrogativo che le è stato posto ora, in età avanzata, ma al quale lei aveva iniziato a rispondere fin dalla giovinezza.
Non stupisce il carattere meditativo di alcuni passi dell’opera se si tiene conto che la Niccolai diventa monaca buddista nel 1990: la religione entra nel discorso in modo pervasivo, ma non invadente («se non avessi trovato il Buddismo a cinquant’anni dopo l’ictus cerebrale, non credo che avrei avuto la forza di riprendermi. Credo piuttosto che sarei potuta morire»). Forse il Buddismo le ha permesso di riordinare quello che già da tempo metteva nelle sue poesie, ma fin dal principio si ripromette di non parlare troppo di questo aspetto della sua vita – e subito ci accorgiamo dell’impossibilità di eluderlo.
In fin dei conti, che sia o meno il buddismo la chiave con la quale la Niccolai sia arrivata a spiegarsi – e a spiegarci – cos’è, per lei, la poesia, poco importa. Ciò che più conta è quanta appassionata sincerità e profondità riesca a mettere nelle sue riflessioni. Il racconto si apre proprio con il ricordo della visita di un tempio buddista a Kyoto, ma l’autrice pare voler raccontare le esperienze significative della sua vita come una nonna affettuosa che intrattiene i propri nipoti. Tuttavia, fermo restando questo carattere dell’opera, le riflessioni sulla poesia non sono affatto banali, tutt’al più tralasciano di soffermarsi su cosa la poesia è – o dovrebbe essere – in termini “oggettivamente” letterari e si concentrano sulle rispondenze che la poesia riscuote sul lettore: «È poesia un senso di stupore e meraviglia, la commozione per la straordinaria bellezza della ‘cosa’ (pensiero, immagine ecc.): una sorta di momentanea sospensione del giudizio critico e dunque della nostra concettualizzazione».
Dunque un discorso assolutamente soggettivo, ma che richiede una fortissima cognizione di causa di ciò che realmente la poesia dovrebbe essere per ognuno, una coscienza personale che permette di non scadere nel considerare poesia tutto ciò che oggi viene spacciato per tale (a proposito consiglio di andare a recuperare l’articolo di Victor Attilio Campagna Andare a capo non è così facile https://www.losbuffo.com/2016/09/29/lente-dingrandimento-andare-a-capo-non-e-cosi-facile/). La Niccolai, sulla scorta di Hannah Arendt («Le opere d’arte sono cose del pensiero»), si interroga su quanto l’idea possa farsi cosa, oggetto, partendo dall’ovvio presupposto che l’idea sia totalmente soggettiva, quindi su quanto conti la componente idealistica nell’arte: «secondo la filosofia buddista, senza mente (senza pensiero) non c’è alcuna cosa». Questa forte coscienza della poesia emerge bene quando l’autrice affronta l’analisi di alcune sue Meditazioni nel capitolo intitolato *, e quando rilegge alcuni componimenti di Corrado Costa e Adriano Spatola, «le cui opere» afferma «non hanno ancora avuto i riconoscimenti che meritano».
Non mi soffermo oltre a parlare di Cos’è “poesia” di Giulia Niccolai, ma spero sinceramente di essere riuscito a incuriosirvi. Eppure molto altro ci sarebbe da dire… dopotutto «poesia deve essere anche rivelazione».
A cura di Davide Paone