Cara,
nella cattività, la caccia
dell’ambiguo; non hai la colpa
del piacere, non la piastra
su cui bollire l’istinto alla
vita. Chi sei tu? Un prelato,
abbocchi all’amo la nostra
perizia industriale, indu…
noi cosa siamo? Cosa abbiamo
da dire? Noi, cosa saremo in
una pagina sola, in una riga.
Cosa saremmo, fossimo, cosa,
cosa se intanto pensassimo;
cosa saremmo fossimo iniziati
alla vita, cosa? Di questa
questua ti rimane un palmo
di menzogna e ti accorgi
dell’impossibilità del XXI
secolo. L’impossibilità.
Cara, carissima,
forse infinita, ti devo
un angelo, ti devo un secolo e più,
forse. In definitiva,
(ma esiste qualcosa in definitiva?)
non ti so dirigere uno spazio:
mi hai detto che sì, ecco. Cara,
carissima, io ti sto parlando
e tu, muricciolo, pareggi la
vita con una piaga da decubito.
Non farti piegata, non ferirti
con la tua piaga perineale
scolpita: arrangiati, plasticati,
forse conviene… conviene forse
in questo radical-chic collettivo;
che fosse inconscio
lo sapevi, carissima, collettivo;
ma dove vai quando scopi?
Comunicami la vita!
Comunicami… tutti i muscoli,
tutti ti si affrancano dall’inibizione.
Che hai visto ora? Che hai visto, ora, che?
Che ho visto? Una particella,
la tua pastella sciolta, il tuo
altare piagarsi, affrancarsi
dall’alcantara. Hai spento gli alogeni:
ora vedi davvero lo schiaffo
quotidiano dei giornali che leggi.
Lo vedi?
Lo vedo come indistinto, e mi pare sia
l’esigenza. Solo l’esigenza, la pretesa che
che non arrivi a conclusione quel che…
che la poesia, o il poema. Storia,
voglio solo, solo, contenga
un’iterazione.
Una storia. In seno. Allattata alla grande
alla grande puttana. Alla grande puttana.
E che smetta di scavare: siamo già
sotterra.
Victor Attilio Campagna