Sarebbe ingenuo considerare Montale come un fenomeno solitario spuntato dal nulla in terra ligure. Egli rappresenta senza dubbio la voce più autorevole di un indirizzo culturale ben radicato nella Liguria di primo Novecento. Personaggi come Giovanni Boine, poeti come Rebora, Campana, Sbarbaro, rappresentano i massimi esponenti di una linea ligure fortemente contraddistinta nel panorama della lirica italiana novecentesca. Fra questi, Camillo Sbarbaro esercitò un’importante influenza sul Montale degli Ossi di Seppia, che non a caso gli dedicò alcune poesie della raccolta. Insieme ai Canti Orfici di Campana e ai Frammenti lirici di Rebora, Pianissimo di Sbarbaro è una delle opere cardine del primo Novecento italiano.
Sbarbaro condusse un vita ai margini degli ambienti culturali italiani. Sebbene rientrasse nei circoli vociani, si mantenne sempre lontano dalle discussioni letterarie e alieno ad ogni forma di intellettualismo. Alla “professione” di letterato egli preferì quella di lichenologo dedicandosi alla letteratura solo in veste di traduttore classico e, ovviamente, di poeta.
Pianissimo venne pubblicato nelle edizioni della Voce il 1914. Nella sua opera, Sbarbaro fa sue le tematiche già ricorrenti negli altri poeti liguri, fedeli ad una linea di antiretorica e di autenticità esistenziale. Un linguaggio semplice, scarno e arido rende l’eloquio prosastico e meditativo. Si possono comunque avvertire degli echi leopardiani (soprattutto dell’Infinito) nella contemplazione della natura, anche grazie alla solennità di certi endecasillabi (“Talor, mentre cammino solo al sole/e guardo coi miei occhi chiari il mondo/ove tutto m’appar come fraterno…”…”Come uno smarrimento allor mi coglie,/uno sgomento pueril.”).
In Pianissimo viene investigata l’angoscia e l’alienazione di un uomo contemporaneo ridotto a marionetta della società, i cui unici attimi di libertà sono rappresentati da gesti inconsulti, dall’evasione anarchica e autopunitiva nel sesso e nell’alcool sulla scorta di quella poesia francese che trova in Baudelaire il massimo esponente (“Esco dalla lussuria./M’incammino/pei lastrici sonori della notte./Non ho rimorso e turbamento./Sono solo tranquillo immensamente.”)
Domina la consapevolezza della propria estraneità alla vita, che si traduce nell’angoscia di una sofferta inesistenza. Viene meno il rapporto conoscitivo con il mondo e con la società. Resta soltanto una fuga nell’oblio e nell’indifferenza, che sarà un tema caro al primo Montale.
Un altro tema montaliano presente in Sbarbaro è l’aridità. Il mondo si desertifica, così come l’io (“ … e il mondo è un grande / deserto. / Nel deserto / io guardo con asciutti occhi me stesso.”). La vita subisce come un processo di mineralizzazione e certi paesaggi invernali possono ricordare il Dante delle Rime petrose. Non sarà un caso dunque che Sbarbaro abbia dedicato gran parte della sua vita allo studio dei minerali.
Nella poesia di Sbarbaro esplode, quindi, il grande disincanto novecentesco: i sentimenti si svuotano, l’anima si dichiara morta (“Taci, anima stanca di godere/e di soffrire (all’uno e all’altro vai/rassegnata).”), lo sguardo poetico non più in grado di cercare la Verità (“…Perduta ha la sua voce/la sirena del mondo, e il mondo è un grande/deserto.”). Il poeta si riduce a sonnambulo, a girovago per deserti bassifondi cittadini.
A rendere ancora più sofferta la condizione esistenziale di Pianissimo contribuisce l’esperienza personale della morte del padre, alla cui memoria è dedicata la raccolta. La figura paterna che compare nei versi di Sbarbaro risente sicuramente di un’influenza pascoliana, soprattutto nell’intimità del ricordo familiare (“Chè mi ricordo d’un mattin d’inverno/che la prima viola sull’opposto/muro scopristi dalla tua finestra/e ce ne desti la novella allegro”), ma ad essa si aggiunge una tragicità freudiana. Al padre è associata la confessione di una colpa da parte dell’Io, ormai condannato alla lussuria più degradante, che ribadisce ancora una volta la propria inerzia sentimentale e l’incapacità di amare.
Fedele al suo isolamento, dopo la pubblicazione delle prose di Trucioli (1920) e Liquidazione (1928), Sbarbaro si chiuse in un lungo silenzio artistico dedicandosi a traduzioni classiche e all’attività di lichenologo. Solo tra gli anni Cinquanta e Sessanta tornò a pubblicare volumi di prose e una seconda raccolta di poesie, Rimanenze, che raccoglie testi scritti trent’anni prima, nei quali dominano la consolazione naturalistica e gli scorci della sua Liguria.
Com’è ovvio che accadesse, la grandezza di Montale ha rilegato in secondo piano l’esperienza di Sbarbaro la cui poesia, oggi, ha forse più valore storico che artistico. L’eccessivo prosaicismo, il linguaggio così diretto di poesie scritte quasi per esigenza, o meglio “registrate” nella loro immediatezza lirica hanno di certo limitato la fortuna critica di Sbarbaro. Montale farà sue le angosce esistenziali rielaborandole in un linguaggio curato e unico.
Di Sbarbaro, però, rimane la voce sussurrata “pianissimo” e la testimonianza di un’esperienza autentica e sofferta in cui la vita entra prepotentemente nei versi fino a soggiogarli nella propria drammaticità.
Fonti: Poesia italiana del Novecento, a cura di E. Gioanola.
Introduzione a C. Sbarbaro, Pianissimo, a cura di L. Polato, Marsilio Editori.