22 anni fa, 28 marzo 1995, usciva King for a Day… Fool for a Lifetime, il quinto album dei Faith No More -terzo con Mike Patton alla voce – e l’universo ai piedi della band californiana si spacca in due.
Una metà prende la nuova uscita come il segno di un’ulteriore maturazione, la definitiva presa di posizione del gruppo; l’altra metà la prende come un annaspante tentativo di rimanere a galla, una forzatura, il triste epitaffio di una band ormai vecchia e stanca. Pare obbligatorio dire che, a tutti gli effetti, ogni album dei Faith No More dalla dipartita del cantante Chuck Mosley ha scatenato la guerra civile tra i fan della band: all’uscita di The Real Thing, chi era abituato a Chuck e a quelle sonorità a cavallo tra anni ’80 e grunge ha sostenuto che Mike Patton avesse ucciso i Faith No More, mentre le menti più aperte hanno accolto il nuovo e freschissimo cantante con grande entusiasmo; quando è è arrivato il momento di Angel Dust, la popolazione di metallari affezionati allo stile thrash perpetrato dal chitarrista Jim Martin si è infuriata condannando l’album come un’inutile accozzaglia di generi buttati lì a caso, mentre le solite menti illuminate sono rimaste piacevolmente stupite dalla piega presa dal gruppo una volta che il giovane Patton si è deciso a mostrare al mondo la sua sconcertante personalità. Poteva andare diversamente con l’album successivo? Assolutamente no.
Addio Jim Martin, addio metal e metallari. Almeno questo è quello che i Faith No More si sono augurati sostituendo il vecchio chitarrista con quel pazzo strambo di Trey Spruance, nientemeno che il chitarrista dei Mr.Bungle, l’altro (il primo, vero) gruppo di Mike Patton. Invece, tirando le somme, si sono ritrovati con un album contenente dei brani di una cattiveria finora inedita, un album complessivamente molto più chitarristico del precedente, anche se in modo molto più adulto: niente più riff thrash metal, distorsioni acide e infantili imposizioni di un chitarrista che vorrebbe essere il Kirk Hammet della situazione; Trey è camaleontico quasi quanto l’amico di infanzia Mike, si adatta al sound di ogni canzone con una classe che permette finalmente agli altri membri della band di tirare un bel sospiro di sollievo. Riesce a riempire in modo caldo e ricco le lacune lasciate dalla scarsa presenza del tastierista Roddy Bottum, afflitto da problemi di salute e familiari; ciò comunque senza mai imporre la sua presenza in modo invadente, ma fondendosi alla perfezione nell’insieme finale.
Il fatto che un album contenga almeno un genere musicale diverso per ogni canzone può scatenare amore o odio; è solo ed esclusivamente questione di gusti: c’è chi vede l’ascolto di musica come un’avventurosa escursione e trova solo più divertimento in continui ed imprevedibili cambi di rotta e panorama; c’è chi invece preferisce un ascolto tranquillo, sereno e lineare come una pacifica passeggiata in riva ad un lago. Tuttavia, per distinguere l’abilità di un musicista nel destreggiarsi con naturalezza fra ambienti molto diversi tra loro da un maldestro tentativo di apparire a tutti costi alternativo ed eclettico ci vuole poco, basta avere l’orecchio un minimo allenato.
I Faith No More sono senza alcun dubbio un rappresentativo esempio del primo caso. L’esperimento era già riuscito egregiamente con Angel Dust, il quale però, se messo al confronto con King for a Day… Fool for a Lifetime, assume una connotazione più infantile ed acerba: è un album frettoloso e colmo di particolari, carico di frenesia giovanile e tempeste ormonali, molto intenso e faticoso. Non che sia affettato e mal concepito, Mike Patton ha avuto già modo di affinare la tecnica grazie alla lunga militanza nei Mr.Bungle, risalente al lontano 1985. In King for a Day, si può ascoltare un eclettismo sereno e rilassato, di un gruppo maturo e adulto che ha semplicemente voglia di divertirsi suonando tutto quello che gli passa per la testa, senza complicarsi troppo la vita. Come racconta Patton:
“La prima volta non senti niente, lo fai e basta. La seconda volta stai facendo di tutto per evitare quello che hai fatto la prima volta. Ti ci butti più duramente, lavori a doppia velocità, ma in realtà non ti stai muovendo di tanto. Ora posso dire che siamo molto più a nostro agio non solo con noi stessi, ma anche con gli altri. I nuovi brani sono naturali e non abbiamo dovuto discutere molto sul tipo di album che avremmo voluto fare. Volevamo mantenerlo semplice, senza sprecare tempo in studio. Penso che abbiamo imparato cosa togliere dalla musica, piuttosto che cosa aggiungervi.”
Procediamo con ordine…
L’album inizia con una vera e propria esplosione rock guidata dal classico trittico chitarra-basso-batteria e guarnita da una linea vocale diretta e sanguigna, ovvero il brano “Get Out”. Il secondo, “Ricochet”, segue la stessa direzione ma stirando e ampliando la lunghezza d’onda in un tono più solenne, che ricorda vagamente qualcosa di simile ai Pearl Jam. Con “Evidence” si ha la prima sorpresa: un sensuale e melenso smooth soul, “qualcosa che ricorda un raffinato cabaret, Al Green, Sade”, come dice il batterista Mike Bordin. “The Gentle Art of Making Enemies” invece torna sui passi dei primi brani, in modo più acido e nervoso. Secondo colpo di scena: “Star A.D.” fa pensare alla sigla di un grande show all’americana in stile Saturday Night Live – con tanto di sezione fiati – ammiccante e chiassosa. Arrivano poi due pezzi feroci e brutali, “Cuckoo for Caca” e “Ugly in the Morning”, caratterizzati da riff veloci e concitati e linee vocali che si intersecano tra scream, growl e folli ululati, che però vengono separati dall’ennesimo colpo sotto la cintura: “Caralho Voador”, ispirato ad una malinconica bossa nova, contiene addirittura frasi cantate in portoghese. “Diggin’ the Grave” è forse uno dei pezzi più conosciuti dei Faith No More, nonostante non abbia avuto molto seguito quando è uscito come singolo; è un brano energico, ma tormentato e tempestoso. La successiva “Take This Bottle” è una struggente ballad dal sapore country. “King for a Day” e “What a Day” sembrano riprendere il discorso lasciato aperto da”The Gentle Art of Making Enemies”, la prima in modo più etereo e sospeso, la seconda con rinnovato vigore. Gli ultimi due brani, “The Last to Know” e “Just a Man”, sono due inni lenti e solenni che iniziano con dei potentissimi vocalizzi di Mike Patton e chiudono l’opera con un emozionante finale in chiave gospel.
A conti fatti l’album non suona né stanco né scarno di idee. L’unica colpa dei Faith No More è stata – e sempre sarà – quella di non aver avuto paura di cambiare seguendo le proprie inclinazioni del momento. I giornalisti musicali hanno sempre avuto il brutto vizio di giocare a chi riesce a prevedere per primo la morte di una band, sparando a zero affrettate e spietate condanne. In questo caso hanno sbagliato di grosso, perché King for a Day… Fool for a Lifetime è un grande album, come il precedente, e non è stato l’ultimo: la carriera dei Faith No More si è infatti chiusa gloriosamente nel 1997 con Album of the Year (di nome e di fatto), per poi riaprirsi nel 2015 con Sol Invictus, l’ennesima dimostrazione che non tutti invecchiano male.
Il discorso Faith No More è rimasto in sospeso: non danno loro notizie da un po’ ma non hanno neanche dichiaratamente chiuso il capitolo della loro graditissima reunion. Noi fan continueremo quindi a tenere un orecchio teso aspettando buone nuove, nella speranza di diventare nuovamente testimoni di un grande ritorno.
Fonti:
- Epic, genio e follia di Mike Patton, Giovanni Rossi, Tsunami Edizioni, 2016