“Vorrei svegliarmi ancora senza sveglia” – Cosmo, “Cazzate”
La totalità che evoca il nome del cantautore piemontese basterebbe a far comprendere il raggio che raggiungono le sue canzone, riusciti esperimenti di intimità universalista, assorbiti nella nostalgia del non detto e non fatto. In fondo, però, “sono tutte cazzate”, come ci ricorda Cosmo, che la fine dei vent’anni l’ha superata già da un lustro e si accorge quanto sia difficile continuare a scherzare quando si hanno due figli, quando il passato comincia a diventare il ladro dei nostri sogni perduti. Eppure, frustra quanto sia duro mantenersi seri, se tutto ciò che si vorrebbe fare è tuffarsi all’indietro, per avere un altro, un ultimo assaggio della festa che sono i ricordi.
Dopo un album non casualmente intitolato Disordine (2013), Cosmo vuole raccontarci L’ultima festa, quella magnifica sensazione che si prova guardando quel che eravamo, catturati dalle voci, ammalianti più che spettrali; la loro, come quella del tempo, è una invasione delicata, che si accumula con gli anni sino a quando non possiamo far altro che rispondergli ed abbracciare quei brevi momenti di euforia. “Le voci”, traccia d’apertura, procede lungo un corridoio di sintetizzatori echeggianti e rimbalzanti, reminiscenti degli elettronici anni ’80. La freddezza metamatica della new wave, però, si incontra qui con il tepore offerto dalla casa familiare, da un ambiente protettivo in cui poter evocare tutte le esperienze del “cosmo” che è la nostra memoria. È così che la canzone può concedersi di esplodere in giochi da big room, da ballo sfrenato e incontrollato, il cui vortice euforico si risolve nel ritorno ad un ritmo più posato; anche i synth si placano assieme alla voce, che diventa quasi confessionale.
Non c’è tempo, o almeno, ci sarebbe se non avessimo così tanta fretta di giocare a fare i grandi. La stasi annoia e, per questo, ci serve “L’ultima festa”, title track che ci scaglia su un dancefloor che pare aver trattenuto gli insegnamenti della acid house, dei festaioli anni ’90, in cui Cosmo sceglie di non pensare per un attimo a quello che la società richiederebbe a chi ha la sua età: “E se c’è un limite lo posso spostare / più in là, più in là, più in là, più giù”. Non si tratta di velleità da Peter Pan, bensì di una presa di posizione che ci ricorda di non smettere di divertirci, di lasciarci andare, anche quando ci dicono che non dovremmo.
Tuttavia, un ultimo divertimento non annullerà la paura del passato, né tantomeno le follie della cultura del piacere personale: “Tu, volevi solo godere / è questa la libertà / nel fantastico Occidente / nelle sue favole”, versi di “Dicembre” che simboleggiano, assieme al refrain (“Ti ha cercato tuo padre / ti doveva parlare”), le contraddizioni insite in tutti noi, che ci portano ad evitare, per orgoglio, a causa di una ricerca spasmodica della libertà, il contatto persino con chi ci è più vicino. Queste riflessioni indotte dal gelo invernale, dalla notte dei colori, proseguono il tema sonoro di drum machine e synth che contraddistingue la musica di Cosmo.
In “Impossibile” è raggiunta la consapevolezza di quanto siano fallaci le epifanie controfattuali da cui ci lasciamo trascinare: i “se avessi”, “se fosse stato”, spesso hanno la meglio sul buon senso, tanto da fargli dire “dovevamo incontrarci a Torino in quel momento”, per poi lanciarsi in un intreccio di martellii ancora ispirati alla house music, su cui Cosmo alterna da una strofa all’altra le frasi “nulla è per caso” e “tutto è per caso”. Le infinità del definito e dell’indefinito rimangono in bilico sopra le eccellenti costruzioni ritmiche, che ci aiutano a svelare l’impossibile che risiede al centro di tutto, che organizza e ammanta gli incontri e gli addii.
Si arriva così a rendersi delle “Cazzate” che ci circondano e che si sviluppano in una vera e propria colonizzazione del pensiero: “L’ha detto un mio amico un po’ di tempo fa / e adesso mi sembra la sola risposta / la posto qui in testa/ l’Europa è un gigantesco luna park”, ed è quel “posto” che ci suggerisce la critica a cui vuole puntare il cantautore. Il pensiero facile e confuso, indotto dai meccanismi informatici di diffusione, rende difficile distinguere tra ciò che è inventato e ciò che è reale; rimaniamo ottusi di fronte ad una mole di dati di cui non sappiamo cosa fare. La risposta, per Cosmo, è non prestare attenzione a chi parla a vanvera. Torna così a tuffarsi nel ricordo, in “Regata 70”, canzone in cui la madre diventa il simbolo del perduto e del mai detto, l’accettazione del dramma edipico che il cantante sente di portare ancora addosso e di non poter mai soddisfare.
L’ultima festa si conclude nell’etereo dei synth, nell’intimo ed evocativo racconto di una giornata votata all’annullamento della tristezza: un lunedì di vacanza, che il cantante vive con riscoperta leggerezza, lontano dalle piste da ballo e dalla nostalgia malinconica, vicino a sé stesso e all’amore che adesso lo accompagna, dal quale, come tutti noi, non vorrebbe mai separarsi. Cosmo ci affida un album pieno di momenti riflessivi, carico di personalità e capacità espressiva, nonché simbolica ed empatica, cogliendo il potere che hanno i ricordi sul nostro presente e le difficoltà che dobbiamo affrontare per poterci conoscere ed accettare.