“Questo di parlare, cosi’, o con la matita che va con il pensiero, è, anche questa, una antica ricchezza (per me!) lasciatami da Mamma mia, che in me, vedeva chissà quali doni di magia, povera cara, e..s’estasiava quando vedeva, me, bambina, che bastavo a me stessa, e parlavo, con la seggiola, o con altri oggetti sottomano, che a me, nel loro silenzio, serbavano un incanto grande – e avevano l’aria d’ascoltarmi, pazienti, a me , che non chiedevo risposta.” -Lettera a Papini.
Un dono, una ricchezza. È così che Eleonora Duse, forse l’ultima tra i Grandi Attori del teatro dell’800 italiano, definisce il modo in cui la sua mano si approccia con la penna.
Aspettate.
L’uso dell’immagine appena evocata non è solo banale retorica come può sembrare; descrive, per quanto possibile, il rapporto che la Duse aveva con la sua scrittura: fisico.
Accade per tutti gli attori teatrali morti prima dell’avvento tecnologico: del loro lavoro non ci rimangono che testimonianze indirette, brevi recensioni più o meno dettagliate, frammenti, solo frammenti di quella che era la loro arte immensa.
Non per il caso di Eleonora Duse.
La sua presenza scenica, così dirompente e densa, così emozionale e nervosa, è tutta lì: in centinaia e centinaia di lettere ingiallite dal tempo.
E’ importante porre l’accento sul fatto che la Duse non nasca scrittrice. Figlia di comici del teatro nomade ottocentesco la sua vita era per e solo nel teatro, nessuno spazio sacrificato in nome di studi regolari e di una buona educazione collegiale. Indipendenza e spirito autodidattico erano quindi ciò che caratterizzava l’esperienza di questi attori di occasione e ciò che l’attrice Divina saprà far fruttare in tutta la sua vasta produzione artistica.
Proprio questa formazione teatrale, infatti, le permetterà di avere uno stile lontano da quelli consueti della cultura ufficiale, ma nel contempo le instillerà un senso di non- inferiorità nei confronti della scrittura colta.
Certo è però che la giovane Eleonora probabilmente trovò uno stimolo e una forte attrazione nel mondo degli scrittori, un mondo così antitetico al suo, anche per le diverse relazioni a distanza, con Arrigo Boito prima e con Gabriele D’annunzio poi, che non faranno altro che accelerare la già rapida evoluzione della sua scrittura.
Con la maturità il suo diventa un “uso emotivo e tonale” (Mirella Schino, Il teatro di Eleonora Duse) della penna, perfino al livello grafico-visivo, quasi costringesse quindi la carta, ambiente per lei insolito, all’espressività tipica del palcoscenico, più familiare ma ormai a tratti soffocante.
Così ne parla Emilio Mariano in Sentimento del vivere:
“L’inchiostro è quasi sempre quello “suo”, viola: un viola carico che sotto la larga punta può diventare una vera e propria pennellata. Rare volte la calligrafia è regolare, ed è allora composta in una grande armonia. Più spesso è nervosa, a balzi. I caratteri si restringono, si allargano fino a dismisura seguendo l’elasticità del cuore che li esprime. A volte riempie il foglio bianco così come un pittore la tela vergine: architetta il foglio di spaziature, di
bianchi, di pieni, che rispondono ognuno ad uno stato dell’animo.”
Quei balzi, quei salti improvvisi quasi acrobatici, quel suo modo di dominare lo spazio teatrale (“come se camminasse sui serpenti” secondo le parole di Adelaide Ristori, famosa e altrettanto importante attrice dell’epoca), tutto questo gettato nelle sue lettere, trascritte poi amorevolmente anche dalla figlia Errichetta.
La grande conversazione epistolare di quegli anni, immersa tra teatro e letteratura, produrrà ben quattro preziosissimi quaderni di lettere e di note tra il 1914 e il 1924, ma la loro sostanza discontinua, fatta di salti e interruzioni, di sorprese e contraddizioni, ne rende il percorso di pubblicazione assai complicato; quasi impossibile, infatti, crearne un libro unico e coeso.
D’amore, alla figlia, ad attori e amici, queste raccolte di lettere ci parlano di una donna resa mito ma che per una vita ha urlato umiltà, di una donna tormentata, dannata, scostante, generosa, sensuale, emancipata, controcorrente, libera, prigioniera, viva nel suo e nel nostro tempo.
“Io resto qui, per ora, è vero (…), ma per andar altrove”
Altrove, dentro, al di sotto delle regole e delle norme, più vicina alle dinamiche ritmiche e visive che alla sintassi regolare, la Duse emoziona e sconvolge ancora, anche se lontana ormai da quel polveroso impiantito, tanto amato quanto detestato.