1303-1305. Dante, De vulgari eloquentia: infinite varietà dialettali in Italia, dove ogni varietà si scompone, si frantuma, si divide in tante, tantissime sottovarietà, apparentemente simili ma intrinsecamente così diverse.
1525. Pietro Bembo, Prose della volgar lingua: vengono eliminati i tratti dialettali, la lingua prescelta è quella delle Tre Corone, Dante, Petrarca e Boccaccio. Viene “normatizzato” l’italiano scritto, insomma.
1840. Alessandro Manzoni, la terza edizione de I promessi sposi: lingua prescelta, il fiorentino. Viene “normatizzato” l’italiano parlato, stavolta.
Tutto questo per dire che l’Italia e l’italiano hanno sempre dovuto affrontare la tanto famosa “questione della lingua”, risalente a tempi antichissimi ma non ancora conclusa -o almeno, così ci auguriamo-. Il problema è che l’italiano è una lingua particolare, sui generis. È una lingua che non è nata dall’oralità, dagli organi di prestigio, dal parlato. L’italiano è nato come lingua scritta, la lingua delle Tre Corone prima, il toscano più tardi.
Ma non il toscano che si parla in Toscana, naturalmente. Un toscano edulcorato, pulito, privato di tutti gli elementi tipicamente dialettali -la famosa gorgia, ad esempio: nell’italiano standard non esiste la pronuncia aspirata della /k/-, un toscano snaturato. Il toscano che si parla in Italia, potremmo dire. Una lingua creata a tavolino, una lingua che non ha niente a che vedere con il parlato, con l’italiano comune, popolare, una lingua con delle regole rigide e marcata da una precisa varietà.
Quindi, ricapitolando: un italiano normatizzato (“normativo”, per l’esattezza), un italiano comune, ossia quello parlato più o meno da tutti, e un italiano prettamente regionale, caratterizzato dalle differenze dialettali. Questa è un’approssimativa, sfocata e rovinata fotografia della situazione linguistica italiana, dove i dialetti giocano un ruolo fondamentale. In primis, perché sono considerati sistemi autonomi e non varietà della lingua, e poi perché il loro continuo contatto con l’italiano ha creato -e continua a creare- una sorta di interlingua, un continuum linguistico in cui l’italiano italianizza il dialetto e viceversa. Oltre al fatto che il dialetto è antichissimo, risale ai rapporti tra il latino e le lingue di sostrato che si parlavano in Italia, si è evoluto, è stato considerato una varietà bassa dell’italiano, è stato l’unica lingua realmente conosciuta e parlata, è diventato oggetto di studio, di ricerca. E adesso fa parte di tutti noi, in maniera attiva o passiva. Attiva, se pensiamo al dialetto chiamato “trasparente”, ossia al dialetto che usiamo consapevolmente, un dialetto motivato, parole dialettali di cui conosciamo il significato. Passiva, nel caso di dialetto “opaco”, ossia un dialetto antico, che ormai non è più riconosciuto dai parlanti, immotivato, parole di cui non si conosce -o riconosce- l’etimologia.
Ma comunque, i dialetti sono estremamente dinamici, quelli arcaici sono stati sostituiti da quelli moderni che continuano a invadere l’italiano, a entrare dentro la sua struttura e intaccare tutto, la fonetica, la morfologia, il lessico. È giusto che sia così? Noi vorremmo tanto dire di no, vorremmo tanto sostenere la purezza dell’italiano normativo ma insomma, una lingua inutilizzata rischia di diventare sterile, su questo non ci sono dubbi. La soluzione è tenersi una lingua un po’ più scorretta ma almeno fertile? Non proporremo mai questa, come soluzione. Va contro ogni nostro principio. Ma, forse, se parliamo di soluzione, il problema va posto. E allora, dal momento che ci riteniamo assolutamente incapaci di sostenere la legittimità di qualsiasi errore grammaticale, non faremo finta di avere soluzioni, non ne proporremo. Sarebbero di parte, banali e anche poco utili.
Vi lasciamo con il problema, posto. A voi la soluzione.